Il robot selvaggio è il degno erede di Dragon Trainer: la recensione del ritorno di Dreamworks
Dreamworks torna a misurarsi con una storia ambiziosa e il regista di Dragon Trainer Chris Sanders si conferma uno dei grandi nomi dello studio, regalando emozioni.
Con poche eccezione - tra cui svetta il franchise di Sherk - Dreamworks ha nel suo DNA d’inseguire più che aprire la pista. Era più semplice appurarlo un tempo, a inizio secolo, quando si batteva con Pixar per lo scettro di regina degli studi d’animazione d’Occidente, in un’epoca in cui Illumination Entertainment era ancora di là da venire e le produzioni francesi o giapponesi semplicemente non venivano considerate parte del panorama.
Allora Pixar era lo studio ribelle e innovativo che sfornava grandi storie originali, talvolta stupefacenti, che andavano costruendo una nuova era d’oro dell’animazione, la prima di quella digitale ai suoi primi passi. Dreamworks seguiva a ruota, meno ardita nel selezionare generi, temi e ambientazioni delle sue storie. Spesso però in grado di tenere il passo della concorrente con storie che, partendo dalle medesime premesse, trovavano una loro identità, con un approccio più votato alle famiglie, all’intrattenimento, ma non meno curato.
Il Robot Selvaggio e l’eredità di Dragon Trainer
Con il passare del tempo e l’acquisizione di Disney di Pixar, le cose sono cambiate. L’identità di Pixar si è sempre più diluita in quella del canone animato Disney e anche Dreamworks, senza la sua pietra di paragone, si è in qualche modo persa a livello creativo, con la notabile eccezione del franchise di Dragon Trainer. Franchise che - non a caso - è nato da un film diretto dal duo Dean DeBlois e Chris Sanders, i due registi “esodati” Disney di un piccolo cult come Lilo & Stitch.
DeBlois è rimasto al timone dei capitoli successivi del film divenuto saga e franchise, perché anche in Dreamworks ormai il fine ultimo è quello: tentare nuove storie finché non si azzecca quella che ha i personaggi e la costruzione del mondo giusta per generare una serie di film, merchandise, giostre in parchi a tema: profitto. Chris Sanders ha diretto altri film apprezzabili ma mai davvero capaci di sfondare a livello commerciale o esaltare la critica. The Wild Robot potrebbe fare entrambe le cose perché è un film riuscitissimo, che arriva in un momento particolare di transizione dentro Dreamworks.
Si è ripreso infatti a inseguire Pixar, non tanto per tipologia di storie, quanto per approccio produttivo. Dopo anni di pochi, selezionati titoli in sala, Dreamworks sta tornando in pompa magna e, come Disney Pixar, lo fa calendarizzando sequel su sequel dei franchise più remunerativi. Prima un nuovo capitolo de Il gatto con gli stivali, poi il ritorno di Kung Fu Panda, ora l’annuncio di quello di Shrek. Per questo Il robot ribelle sembra ancora più speciale: perché è qualcosa di nuovo, la cui storia è concentrata su un racconto e un’espressione artistica e non a gettare le basi di un mondo a cui tornare.
Il robot ribelle è figlio del controllo creativo di Chris Sanders
Il che è particolarmente meritorio per Chris Sanders, che in qualità di solo sceneggiatore e regista, con il completo controllo operativo dell’operazione, ha come assoluta priorità creare una storia magica, emozionante, universale. L’idea originale viene da un libro illustrato per ragazzi di Peter Brown, il primo di una serie. Sanders però non guarda al dopo ma si concentra sul presente, tirando fuori un film di grande ambizione, tradizionale nei messaggi ma così tenero, così ricco di affetto ed empatia nel parlare di ciò che collega e unisce gli essere viventi da sopravvivere al suo stesso buonismo.
Non stupisce che Dreamworks sia andata a a pescare questa storia di Peter Brown, dato che è la fusione perfetta di due grandi hit della concorrenza: il classico sci-fi Wall e il poliziesco disneyano Zootropolis. A riprova che certi approcci, certi modus operandi, certi vizietti è difficile scuoterseli di dosso. Dreamworks rimane refrattaria ad aprire la via, ma nella prima parte nel ricalcare quando fatto di rivoluzionario da Wall e e nella seconda quanto ha reso una hit Zootropolis si dimostra davvero in gamba, capace di trasformare similitudini e echi lontani in una storia propria, con un preciso carattere.
Così come un Wall e, seguiamo un robot servizievole che si attiva in un mondo privo di umani, riconquistato dalla natura. Non sappiamo cosa sia successo, così come Roz, che comincia a scorazzare per un’isola popolata da soli animali alla ricerca di un cliente da soddisfare. Il suo modello di linguaggio le permetterà di cominciare a capire la fauna locale,giusto in tempo per rendersi conto di aver involontariamente causato la morte di un’oca e della sua covata. Un uovo però è rimasto intatto e Roz lo salva da Fink, una volpe solitaria intenzionata a papparselo.
Dall’uovo nasce una piccola ochetta, di taglia inferiore alla media, che per imprinting naturale comincia a seguire Roz ovunque, pensando sia la sua genitrice. Con l’idea di mangiarsi Becco Lustro, Fink si dichiara “conoscitore di oche” e si candida come guida per il robot attraverso le fasi necessarie a garantire la sopravvivenza del volatile: mangiare, nuotare, migrare. La furbizia, il distacco e il dolore a malapena celato di un predatore bistrattato non possono che ricordare il Nick di Zootropolis, così come la compagine di animali che abitano l’isola, impegnati in una continua lotta per la sopravvivenza e diffidenti verso “il mostro”.
Il robot ribelle ha qualche sbavatura, ma è difficile non innamorarsene
Il film si articola così in tre atti: un primo arco di presentazione della natura robotica di Roz e dell’istinto naturale di Fink e degli altri animali, un secondo in cui si costituisce una sorta di famiglia sui generis che permette a ciascuno di soddisfare i suoi istinti/programmazione e infine un terzo, il più debole, in cui il film cerca la via del compromesso. L’unica sbavatura di Il robot ribelle sta proprio nel fatto che è difficile credergli quando riesce a superare la forza che muove i personaggi in nome dell’amore, quando invece poco prima aveva scelto una conclusione più dolceamara ma credibile. Quella che postula che un’oca è un’oca, ma non significa che non possa affezionarsi a chi la cresciuta, anche se è un predatore o è fatto di metallo.
Quando tenta di spingersi ancora oltre, di piegare la natura alle esigenze emozionali, vacilla, perché per farlo introduce tardivamente un personaggio a cui non viene concesso come agli altri di comportarsi negativamente per esigenze di sopravvivenza, per programmazione. La trama si fa un po’ confusa, le regole e le logiche diventano un po’ lasche , ma poco importa, perché nel raccontare cosa renda una famiglia e una comunità tali Il robot selvaggio intesse una storia emozionante e avvolgente, ricca di personaggi che scaldano il cuore, con risposte semplici a problemi e domande gigantesche, universali.