Imaginary, recensione: un horror brutto ma in modo molto, molto creativo

E se gli amici immaginari dei bambini non fossero gentili e non fossero immaginari? Imaginary avrebbe potuto essere facilmente un franchise per quantità d’idee messe sul piatto ma…

di Elisa Giudici

Ogni anno arrivano al cinema così tanti film horror targati Blumhouse che sembra un po’ di seguire un affollato cinematic universe. Il vero elemento d’interesse non è tanto il tentativo, molto goffo, di tenere insieme in una sorta di coesistenza da multiverso tutte le creature ed entità diaboliche che lo compongono. La scintilla d’interesse di fronte a un nuovo film Blumhouse, uno basato su un soggetto originale come Imaginary, è: quanto brutto è il risultato?

Jason Blumhouse infatti è il Fruttero&Lucentini degli horror a basso costo. La sua visione e improntata alla quantità, alla produzione industriale, a catena di montaggio di nuovi film che generino fatturato. Talvolta s’incappa in un film che funziona molto bene (l’ultimo è stato M3gan), capita persino d’imbattersi in un gran film (non se ne vede uno dai tempi de L’uomo invisibile), ma nella maggior parte dei casi in cui si va vede un film Blumhouse ci si trova a fare i conti con un film non riuscito, brutto.


Imaginary non nasce sotto una buona stella

Che Imaginary appartenesse a questa categoria lo suggerivano a priori due indizi. Il primo è che Universal, che ha un accordo in essere con Blumhouse che le dà diritto di prelazione sulla distribuzione rispetto alla concorrenza, abbia deciso di non esercitarlo, lasciando ad altri l’onere di portare il film in sala. Il secondo è che alla regia c’è Jeff Wadlow, che girò quello che è in assoluto uno dei peggiori horror dell’intera produzione Blumhouse: Fantasy Island. Senza dimenticare che l’embargo sulle recensioni della stampa internazionale è stato mantenuto fino al giorno stesso dell’arrivo del film sala, segnale in sé molto preoccupante.

Come da previsioni della vigilia, Imaginary è un film insoddisfacente, brutto persino, però di una bruttezza in qualche modo pregiata. La sua colpa infatti non è quella di essere un film pigro, un titolo senza idee, approcciato con l’attitudine mercenaria di chi maschera la sua mancanza d’idee con più jump scare possibili. L’idea di base di Imaginary è così stratificata e complessa che potrebbe reggere non un film, ma un intero franchise. Se solo fosse sviluppata e portata avanti con cura, cosa che ahimé non avviene.

Imaginary avrebbe potuto funzionare

Jessica (DeWanda Wise) torna a vivere nella casa della sua infanzia con il compagno e le figlie di lui, la piccola Alice (Pyper Braun) e l’adolescente Taylor (Taegen Burns). Jessica vorrebbe essere una buona madre per loro, traumatizzate dai disturbi mentali della loro vera genitrice. Anche lei però non vive un periodo facile, tormentata com’è da incubi spaventosi con protagonista una creatura che sembra un gigantesco ragno.

Mentre Jessica cerca di trovare ispirazione per le illustrazioni del suo nuovo libro per ragazzi, Alice trova un orsacchiotto nello scantinato di casa e lo chiama Teddy. Inizialmente tutti sono felici che la bambina ritrovi la serenità grazie al suo amichetto immaginario di peluche, ma pian piano il suo rapporto con Teddy si fa preoccupante. L’amico invisibile la coinvolge in giochi sempre più pericolosi e sembra provare del risentimento verso Jessica. Alcuni vecchi disegni di Jessica da bambina rivelano che forse anche lei, in passato, ha giocato con Teddy…

Pochi spaventi, tante spiegazioni

L’aspetto sorprendente di Imaginary è quanto tempo spenda del suo minutaggio totale a spiegare cose al suo spettatore. Le relazioni tra personaggi sono tutto uno spiegarsi a vicenda cosa è successo prima, come si sentono ora, cosa faranno dopo. Ci sono personaggi come quello della baby-sitter che appaiono quando è necessario un momento extra di spiegazione delle logiche e delle regole che governano l’entità oscura che insidia Alice e Jessica. Imaginary ci mette così tanto ad arrivare al dunque e quando lo fa decide di spiegare così tanto dello stesso che la componente horror pura non occupa più di una ventina di minuti. Pochi, pochissimi spaventi.

È stato lo stesso Jeff Wadlow a spiegare di voler richiamare i film horror in cassetta degli anni ‘80, dove la componente orrorifica era continuamente mescolata al fantastico e al mistero. Lo si capisce dall’estetica scelta per la trasformazione finale dell’amico immaginario di Alice, che richiama certi pupazzoni analogici della televisione di genere per ragazzi di quell’epoca.

Il problema di Imaginary è che a fronte di uno spunto elementare, fulminante, efficacissimo - cosa succerebbe se l’amico immaginario di un bambino volesse in realtà fare del male allo stesso, nutrendosi della sua immaginazione? - si complica inutilmente la vita con una marea di…verrebbe quasi da chiamarle derive burocratiche. Gli eventi in Imaginary vengono continuamente messi in pausa per mettere paletti, aggiungere informazioni, stabilire le regole necessarie per far succedere qualcosa. Nel mondo di Imaginary il Male, in formato orsacchiotto, se ne sta tranquillo tra le braccia di una bambina come il più polveroso dei burocrati, in attesa che tutte le condizioni preliminari vengano ottemperare prima di agire.

A Imaginary non difetta l’immaginazione, ma la coerenza e la precisione

Oltre a Wadlow la sceneggiatura è cofirmata da Greg Erb e Jason Oremland. L’impressione è che tutti e 3 abbiano aggiunto materiale e idee, senza curarsi di coordinarsi con quanto fatto dagli altri due, figuriamoci di scartare quanto ridondante e non necessario. Un esempio è lo sviluppo del personaggio della ex babysitter di Jessica, che sul finale ci svela che aveva già visitato il luogo dove si svolgono le ultime scene del film. Come ci sia arrivata e come ne sia uscita è però qualcosa su cui il film si rifiuta di elaborare.

Talvolta il film si rivela un po’ pigro, o insiste su componenti che farebbe bene a eliminare: perché citare continuamente Inside Out della Pixar, finendo per sottolineare quanto lo spunto di questo film sia derivativo, forse da una bevuta in ufficio in cui a un certo punto qualcuno ha urlato: “oh oh oh e se facessimo un film tipo amico immaginario di Inside Out ma è cattivo?” e gli altri avessero risposto “ma sei un genio!”. La sceneggiatura sembra scritta di getto da tre persone che non si parlano e con nessuno che l’abbia poi riletta e sistemata, lasciando molte ridondanze e incoerenze a confondere lo spettatore. Perché per esempio perdere tempo introducendo un compagno e padre delle protagoniste che subito dopo viene spedito senza tante cerimonie lontano da casa, annullandone la presenza.

Imaginary però non è interessato a una sana economia della storia, a una coerenza interna che renda il racconto più efficace. Gli piace invece accatastare quante più idee possibili, anche se confliggono tra loro. Il suo è una sorta di massimalismo narrativo che costringe gli interpreti coinvolti a dare vita a personaggi che passano la maggior parte del loro tempo a enumerare infinite regole del gioco piuttosto che giocare.