Indiana Jones e il quadrante del destino, recensione: un'avventura destinata a fallire
Indiana Jones e il quadrante del destino, la recensione del film
Indiana Jones e il quadrante del destino è un film ossessionato dal tempo e dalla possibilità di manipolarlo. Lo è innanzitutto a livello di trama, dato che mette al centro la fantomatica Antikythera, un leggendario quadrante inventato da Archimede durante l’assedio di Siracusa a opera dei romani. L’artefatto è ritenuto in grado di aprire uno squarcio nel fluire del tempo, permettendo a chi la possiede di attraversarlo.
Lo è anche a un livello più alto: l’intera operazione infatti affronta la missione impossibile di realizzare un Indiana Jones che abbia il sapore antico dei primi film di Steven Spielberg con Harrison Ford, con la consegna di non cambiare nulla. Anzi: già che c’è, si preoccupa anche di rimediare come può ai cambiamenti invisi al pubblico operati da Il teschio di cristallo nel 2008.
A un certo punto del film Phoebe Waller-Bridge dice a Indy che lui “appartiene a questo tempo”, riferendosi al presente dei personaggi. È facile però intuire come voglia convincerci di questo assioma in senso più generale. Indiana Jones è un’icona che appartiene al presente? No e non ha bisogno di esserlo. In questo senso ha molta più ragione Mads Mikkelsen quando, nei panni del più banale nazi-cattivo visto al cinema in anni recenti, dice a Harrison Ford che uomini come loro “appartengono al passato”.
Indiana Jones è un’icona del suo tempo e nessun nuovo film, bello o brutto che sia, può togliergli questo status, che non ha bisogno di riletture, aggiustate o consolidamenti di sorta. Cosa può dunque aggiungere un film a cui viene chiesto di darcene di più, ancora, con un protagonista ottuagenario e il divieto di cambiare alcunché? Nient’altro che una vuota ripetizione, buona per impenitenti nostalgici e allergici ai cambiamenti.
Continua a leggere la recensione di Indiana Jones e il quadrante del destino:
- Di cosa parla Indiana Jones e il quadrante del destino
- Cosa funziona e cosa no in Indiana Jones e il quadrante del destino
Di cosa parla Indiana Jones e il quadrante del destino
Il quadrante del destino è l’artefatto al centro del film, che si apre in piena epoca nazista. Indy e il suo amico Basil Shaw sono sulle tracce di un altro artefatto trafugato dai nazisti quando si imbattono in una metà del congegno.
Il film si apre con un lunghissimo flashback che adopera i “ritocchini in CGI” per restituire un Harrison Ford giovanenelle lunghe, complesse sequenze di combattimento in cui fronteggia i nazisti, assaltando un treno carico di soldati. L’effetto è impressionante e in costante miglioramento, ma lontano dall’essere naturalistico.
Il resto del film si snoda invece nel 1969, dopo dopo l’allunaggio**. Indy è un professore stanco e alcolizzato,** che si prepara ad affrontare da solo la pensione. Il ritorno improvviso della figlioccia Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge) mette in modo una nuova avventura sulle tracce del geniale Archimede e della sua macchina in grado di viaggiare nel tempo, che rischia di finire in mani sbagliate.
Da Tangeri alla Sicilia, attraversando il Mediterraneo, Indy e la figlia del collega e amico scomparso si ritroveranno di fronte all’ennesimo tentativo di riportare in vita il sogno per alcuni mai sopito del risorgimento del Terzo Reich.
Vecchi e nuovi amici aiuteranno Indiana Jones a ricacciare nel passato i demoni della storia e a ritrovare un senso al suo presente.
Cosa funziona e cosa no in Indiana Jones e il quadrante del destino
Ben prima che il film vedesse la luce alcune voci si erano affrettate ad addossare eventuali fallimenti a James Mangold, il regista a cui tocca la grana di sfornare un lungometraggio i cui presupposti rendono impossibile immaginarne la riuscita.
Un’impresa ancora più ardua di quella toccata a Denis Villeneuve con il sequel di Blade Runner e a J.J. Abrams con Il risveglio della forza, perché lo spazio di manovra si è ulteriormente ridotto. A questo Indiana Jones viene chiesto di non creare nulla e di ripetere quanto visto in precedenza, rinforzando lo status quo del franchise.
A suo onore e merito, Mangold fa il possibile per rendere l’esperienza di visione piacevole, azzeccando un paio di sequenze all’altezza dell’originale per verve e comicità. La bomba protagonista di una delle prime scene nella fortezza nazista sembra un trucco uscito dal cappello di Spielberg, così come certe raffinatezze registiche che restituiscono l’atmosfera di un cinema avventuroso tradizionale, quasi antico.
A differenza del predecessore Spielberg (che si è giustamente ben guardato dal tornare alla regia), Mangold è costretto nel ruolo e per giunta appesantito dagli effetti speciali. Il quadrante del destino è infatti il perfetto monito rispetto alle capacità tecnologiche del cinema oggi: non è sempre consigliabile realizzare una scena, anche quando gli effetti speciali rendano possibile farlo.
Questa pellicola è così ricolma di sequenze iper-spettacolari ma ottenute solo grazie all’ausilio degli effetti speciali (peraltro chiaramente visibili), da depotenziare ciò che di buono il film fa. Si ha l’effetto di un’artificialità che rende tutto finto, noioso. Un esempio: nella prima parte del film Indy fugge a cavallo da alcuni inseguitori, durante una parata. Mentre tenta di seminarli tra la folla lanciandosi al galoppo, la scena è epica e coinvolgente, ma quando si rifugia in metropolitana senza lasciarsi dietro il cavallo diventa così assurda, così evidentemente forzata e irrealistica, da staccarci dall’azione per interrogarci sulla fattibilità di quanto vediamo.
Non solo: è l’impostazione stessa puramente conservativa del film a rendere l’operazione tutto fuorché eccitante. Indy non è mai in pericolo, non in maniera credibile, perché il suo personaggio non viene mai nemmeno messo in gioco. È più icona che uomo, per giunta protetta da una teca che gli impedisce di cambiare, di trasformarsi in qualcosa d’altro.
Allo steso modo la Helena di Phoebe Waller-Bridge non viene mai sfruttata quanto meriterebbe, lasciandoci solo intuire il suo potenziale. Troppa è la paura d’irritare il pubblico, di rubare la scena a un protagonista che sembra vero soprattutto quando si prepara a vivere il suo pensionamento.
C’è un’altra scena davvero emozionante, un passaggio che tocca anche il cuore indurito d’Indiana Jones. È un momento in cui Indy supplica Helena di lasciarlo nel passato e di proseguire, sola. È il passaggio più genuino, più vero di una pellicola, così come è molto sincera la risposta che Helena dà: no Indy, tu appartieni al presente. Questo perché il pubblico vuole così.
Non importa se l’effetto è straniante e innaturale come vedere una nave triremo di epoca romana affrontare un aeroplano: abbiamo messo Indiana Jones sotto una teca, per preservarlo da ogni alterazione e gli chiediamo di continuare a essere sé stesso, anche quando è anacronistico, futile e persino pericoloso farlo.
Dovrebbe far riflettere il fatto che lo stesso tipo di ritorno è già stato richiesto a Harrison Ford in un’altro franchise amatissimo: Star Wars. Stavolta però non bisogna dare la colpa a Hollywood, ai registi, agli sceneggiatori. La colpa di film così vuoti di senso e novità come Il quadrante del destino è solo nostra, che dovremmo imparare a lasciare che Harrison Ford smetta di mimare chi era un tempo e possa godersi la pensione o quantomeno interpretare ciò che sente e prova oggi.