Io sono l’abisso, recensione: Donato Carrisi prosegue sulla sua strada
Carrisi torna a dirigere un film tratto da un suo thriller, portando avanti un’idea di cinema personalissima, che purtroppo però ha parecchi difetti.
Io sono l’Abisso è un brutto film, ma questo non significa che Donato Carrisi non abbia dei meriti, anzi. Arrivare all’anticipata stampa e trovare una lettera dell’autore e del regista della storia che spiega perché non sono presenti in locandina e sui materiali stampa i nomi degli interpreti, chiedendo di non rivelarli al pubblico anzitempo, svela un’attenzione promozionale oltre quella di facciata di tanti colleghi. Indicazione che questa recensione seguirà con piacere.
Donato Carrisi è sia regista che scrittore di successo: è al suo undicesimo romanzo e al suo terzo film. Dopo il successo commerciale e critico del suo esordio registico La ragazza nella nebbia nel 2017 (film che decise di dirigere in prima persona dopo aver cercato a lungo il nome giusto per farlo) Carrisi è un cineasta che ha a disposizione la fiducia e il denaro di produttori e distributori come Universal, che gli assicurano di poter andare oltre al giallo tenuto insieme con la buona volontà e un budget risicato.
Donato Carrisi: uno regista difficile da valutare
Verso il cinema di Carrisi provo sentimenti ambivalenti e contrastanti. Da un lato trovo ammirevole come, di fronte alle iniziali difficoltà produttive, abbia deciso di spendersi in prima persona e di non farlo timidamente. Piaccia o non piaccia, Carrisi ha uno stile personalissimo e molto riconoscibile dietro alla cinepresa, che non si conforma ai trend del momento e ai dettami del buon gusto cinematografico (a volte a ragione, a volte con risultati disastrosi). Non solo: Carrisi fa autenticamente cinema di genere. Talvolta con toni più noir, talvolta virando verso il thriller, guardando a registri e approcci di qualche decennio fa, con un approccio serioso che ricorda molto un certo filone di ammazzatine commerciali anni ‘90. Senza trascurare un grande, grandissimo amore per il colpo di mano, il colpo di scena finale persino un po’ esagerato, che torna anche in questo film. Me lo spiego così il suo successo letterario e cinematografico: dà a un certo tipo di pubblico un certo tipo di prodotto, non lasciandosi influenzare troppo dai cambiamenti e dalle tendenze circostanti.
Per questo motivo Io sono l’Abisso, come ogni suo altro film, appare al contempo stiloso e datato. Il che è bizzarro, perché Carrisi serve al pubblico un film su un efferato serial killer in un momento in cui c’è tantissima fame di prodotti crime e true crime (cioè incentrati su episodi di cronaca nera, nel secondo caso a partire da veri casi realmente accaduti). Basta dare un’occhiata alle uscite delle piattaforme streaming e alle classifiche dei podcast più ascoltati per toccare con mano quanto le persone comuni vogliano il brivido del thriller, soprattutto se ha sopra il sigillo della storia vera sopra.
Il film di Carrisi si apre con una scelta forte, che ultimamente si era vista solo in Dune di Denis Villeneuve: prima ancora dei loghi delle case produttrici, una voce fuori campo spiega come i fatti narrati ispirati a casi reali o, in ogni caso, potrebbero accadere. In Italia, secondo una certa statistica indefinita citata da Carrisi, sono attualmente a piede libero tra i 3 e i 6 serial killer, che non vengono individuati per tutta una serie di ragioni. Questa premessa la trovo fallace tanto quanto certi passaggi di trama, ma dice molto dell’urgenza che tutti gli autori sentono (Carrisi incluso) di coprirsi come possibile con la coperta della realtà del true crime.
Carrisi indaga il dolore di vittime e carnefici
Il perché questi presunti serial killer non vengano catturati è il segreto di Pulcinella, vecchio quanto il thriller: sono “uomini che odiano le donne”, assassini di prostitute e persone ai margini, la cui scomparsa passa spesso inosservata sui radar. Come dicevo, Carrisi guarda molto a certi collezionisti di ossa anni ‘90 e inizio ‘00, aggiornandoli appena un po’ alle aspettative degli amanti non tanto del genere thriller al cinema quando della cronaca nera che diviene narrazione e intrattenimento.
La storia di Io sono l’Abisso ruota attorno a tre figure senza nome: L'uomo che pulisce, La Ragazzina col ciuffo viola e la Cacciatrice di mosche. L’intento del film sembra essere quello di raccontarli equamente, intrecciando il dolore e il trauma vissuto dalle vittime e dai carnefici, mostrando come la catena del dolore provato da bambini diventi poi violenza perpetuata ai danni di altri. Il film però è molto contraddittorio, perché nelle fasi finali postula esattamente l’opposto, ovvero che il male è una sorta di marchio, qualcosa che infetta la purezza, che scorre nel sangue e devia le menti. Pur essendo devastati dal dolore, L’uomo che pulisce ha una pulsione attiva al male che la ragazzina col ciuffo viola non dimostra mai di avere in maniera attiva, aspettandosi di essere salvata da un intervento esterno.
In Carrisi c’è la voglia di raccontare ancora una volta una realtà lacustre (siamo sul Lago di Como) di sepolcri imbiancati, dove la solitudine e il bisogno di contatto umano rendono le donne bersagli facili, ma anche combattenti e sopravvissute, forgiate dal dolore o carnefici che plasmano con crudeltà la propria progenie. Rispetto al suo film d’esordio però qui è tutto un’ottava troppo alto per toni e messaggi. Carrisi spesso cede a una stilizzazione di facciata (rallenti, inquadrature in diagonale, profili e che emergono dall’ombra) che si trova a fare i conti con dialoghi impostati e talvolta un po’ ridicoli (scultissimo il passaggio sul cetriolini sottaceto). La narrazione non ha poi tanto da dire, specie se quanto raccontato viene spalmato su due ore di pellicola. Da qualche parte c’è la volontà di mettere sullo stesso piano maschile e femminile, peccato che poi le donne del film scivolino sempre dentro a uno stereotipo o quanto meno un prototipo: la madre violenta, la madre salvifica, la bambina perduta, la puttana dal cuore d’oro e così via.
Come regista Carrisi è a metà strada tra qualcuno con tanta passione ma senza basi e un professionista che sa quel che fa. Il gusto è puro anni ‘90, soprattutto per la serietà con cui si approcciano scene molto, molto impostate, passaggi di dialoghi intensissimi ma poco realistici (vedi il titolo, pronunciato dal killer con una sorta di tono mistico), senza un’oncia d’ironia o approccio meta. Il che è rinfrescante perché esce dall’approccio dominante del cinema scanzonato e distaccato di oggi, ma Carrisi non ha la capacità di farlo sembrare altro se non datato. Nemmeno un revival.