Knight of Cups

La premessa doverosa ma anche un po' "paracula" di ogni recensione che si rispetti sui film di questa seconda stagione della carriera di Terrence Malick é: o si ama o si odia. Se é vero che il pluralismo é il sale della democrazia é vero anche che il relativismo esasperato é il sale sulla terra: crea desolazione per anni a venire.

Dopo aver centellinato la sua opera con lunghissimi anni di pausa tra un film e l'altro, Malick é entrato in una fase produttiva molto florida, con un continuo fluire di film i cui contorni si fanno sempre meno netti e distinti. Dove inizia The Tree of Life e dove finisce Voyage of Time? Qual é il confine tra To The Wonder e Knight of Cups?

Difficile a dirsi, ora che il discorso di Terrence Malick si fa sempre più postmoderno e ombellicale, ora che la parte più difficile nella recensione dei suoi film diventa tentare di estrapolare una trama comprensibile ai più. Tra la sinossi del film e il suo effettivo risultato c'é una discrepanza enorme, perché impegnato com'é a raccontarci ancora una volta di un maschio bianco in crisi esistanziale che cerca la terra promessa nelle proprie amanti senza trovare risposta, Malick conversa più con se stesso che con lo spettatore.

Knight of Cups é in realtà un cavaliere la cui vita é esplosa in centinaia di piccoli, talvolta insignificanti frammenti, porti a uno a uno allo spettatore che dovrà tentare, con notevole difficoltà, di farli collimare in un'immagine che abbia un qualche senso.



Si dirà forse che Malick parla all'inquietudine nel cuore delle persone (o quantomeno dei maschi bianchi alfa di incompresa genialità) e che esperimenti simili non é il primo a farli (appunto) e hanno decretato il successo di registi come David Lych (appunto). Posto che anche Lynch quando non si dà una regolata cade nell'inconcludente ermetico (vedi Inland Empire), Terrence Malick non sa proprio ricreare quella studiatissima impressione di realismo che un film che é una sorta di allegorico flusso di coscienza di attimi del quotidiano dovrebbe raggiungere.

Cosa rimane quindi? Un plotone di attori più o meno cult (Natalie Portman, Christian Bale, Teresa Palmer, Cate Blanchett, Wes Bentley, Joe Manganiello, Nick Offerman, Imogen Poots, Antonio Banderas, la voce di Ben Kingsley) che mai riescono a smettere di essere se stessi in favore del personaggio, vestiti di capi glamour di studiatissima semplicità e calati in interni ed esterni dal design di grido, intenti chiaramente a dare una perfomance che loro ritengono essere Arte, con la A maiuscola. Ovvero, detto in parole povere, attori che si sfiorano, camminano, guardano con sguardo vuoto l'orizzonte e dicono frasi altisonanti, in quella che sembra un'involontaria derisione del teatro di sperimentazione.