L’impero è la più folle parodia di Star Wars che esista (ed è solo l’inizio): la recensione del film di Bruno Dumont
Rutilante, folle, autoriale, ironico ma talvolta persino austero: c’è davvero tutto e il contrario di tutto dietro l’ultimo colpo di testa e di regia di Bruno Dumont. La recensione di L’impero.
Per chi ha avuto la fortuna o la sventura di averci già a che fare in passato, si sa, il cinema di Bruno Dumont è un’esperienza che non si può dimenticare, che non lascia mai indifferenti. È il classico regista il cui operato immancabilmente lo si ama, o lo si odia, ma è difficile lasciarsi alle spalle il primo punto di contatto con una filmografia che davvero non sembra avere limiti, tecnici o narrativi.
La Francia è la patria di un pugno di cineasti che alcuni definirebbero estremi, altri essenziali per l'arte cinematografica, altri ancora un baluardo di cinema d’autore che ancora resiste all’assalto di quello commerciale e viene difeso a spada tratta da chi vuole tutelare la nona arte come espressione del proprio elitarismo snobbista. Bruno Dumont è uno di questi alfieri e uno dei più estremi nella capacità di plasmare una propria voce e narrazione. Parafrasando un noto meme, se il già bizzarro e controcorrente Quentin Dupieux “is for boys”, allora Bruno Dumont “is for men”.
L'impero: un'invasione aliena la cui follia si fatica a spiegare a parole
Questo lungo preambolo serve per darvi un’idea di quale mente abbia partorito L’impero, un film davvero incredibile, anche per gli standard di Bruno Dumont. Sulla carta, tentando di ridurne a parole l’esperienza di visione quantomeno spiazzante, potremmo definirla una pellicola di fantascienza ambientata in un piccolo paesino sonnacchioso della Costa Opale, su nel nord della Francia. Qui vive Jony (Brandon Vlieghe), un umile pescatore il cui primogenito si rivela essere un predestinato: un salvatore o forse un Anticristo, la cui nascita mette in allarme mezza galassia. Il neonato richiama infatti sulla Terra due distinte specie aliene, con mire e piani completamente differenti per il destino dell’umanità e il futuro del pianeta che la ospita.
Da una partec’è il perfido Belzebù, interpretato da un mostra sacro del cinema francese come Fabrice Luchini, che ancora una volta dopo Marcello Mio di Christophe Honoré dimostra di padroneggiare a meraviglia il senso del ridicolo. Si rimane ammirati da come faccia sui personaggi così sopra le righe da finire fuori dalla pagina, con un impegno, una sincerità e un trasporto che altri colleghi mettono in campo solo per "i ruoli seri".
Bardato come un’Imperatore del Camp, Luchini viaggia su un’astronave a forma di Versailles che fluttua nel cielo del paesotto, con più di un sospetto che in realtà sia la reggia francese a essersi ispirata al suo mezzo di locomozione interstellare. A fronteggiarlo e dimostrare interesse nel futuro del pianeta e nel bambino messianico c’è invece la Regina aliena interpretata da Camille Cottin (Call My Agent), che viaggia a bordo di un'astronave replica della Saint-Chapelle di Parigi.
Bruno Dumont fa un cinema che se ne frega nei limiti e delle convenzioni
Fin qui la nuda trama del film che ha vinto il Premio della Giuria quest’anno in Berlinale, ma non è che un frammento di un mosaico la cui continua rifrazione della luce, la cui incessante frammentazione di generi e riferimenti cinematografici, finisce per dare un po’ il capogiro, forse anche dare la testa a Dumont. L'invenzione narrativa e filmica è continua.
Il riferimento più familiare e immediato è appunto quello a Star Wars, tirato in ballo un po' il gusto di fargli il verso tra una sveltina in mezzo al mare e una in aperta campagna, un po' con l'obiettivo centrato di creare qualcosa di visivamente appagante in un'ottica di genere fantascientifico, usando come sfondo le vacche che pascolano nella Francia rurale. Difficile dire cosa faccia capolino per un'esigenza di trama e cosa per un colpo di testa, ma i sostenitori di Dumont vi diranno che è proprio quello il bello, o il punto.
A tenere insieme L’Impero c’è un continuo senso di surreale, di un cinema che più la butta in parodia, talvolta in caciara, più appare visivamente bellissimo e tecnicamente rigososo. Da spettatori italiani si riesce a seguire fino a un certo punto il cineasta francese che continua a dare di gomito allo spettatore connazionale con infiniti, intricatissimi riferimenti alla contemporaneità politica e sociale d’Oltralpe.
Il precedente France, a confronto, era un film più canonico e convenzionale, tutto sommato facile da seguire nei suoi eccessi. Qui invece Dumont torna alle sue mescolanze infinite, tenendo a braccetto il lirismo e il camp, mescolando ancora una volta gli interpreti più celebri del panorama francese con un meccanico locale scovato dal regista e convinto a interpretare il padre del messia di cui il film parla.
Non è sempre chiaro dove voglia davvero andare a parare Dumont, se non nel godere fisicamente dei corpi del suoi attori, intellettualmente degli stimoli arguti della sua scrittura, talvolta faticando a tirare le fila di un discorso che comunque non è articolato così come siamo abituati. Ancor più che in France, il suo cinema torna ad essere profondamente alieno a una serie di logiche che diamo che scontate, ma condotto con grande padrona e un rigore sorprendente, applicato con ancor più convinzione tanto più la scena in questione si rivela essere una sciocchezza.