La caduta dell'impero americano
Può un regista ultrasettantenne girare un film come se fosse un trentenne? Se ti chiami Denys Arcand, sì. Il cineasta del Quebec, nel corso di questi anni, è riuscito a crearsi una sua nicchia di riflessione sociale e filmica in cui mette letteralmente a nudo la società contemporanea, analizzandone dilemmi e contraddizioni di fronte ad un mondo che cambia fin troppo velocemente.
Questa nicchia ha pure assunto un riconoscimento in sede di Academy, con l'Oscar al Miglior Film in Lingua Straniera per "Le invasioni barbariche" nel 2004 oltre che attraverso numerosi fan in giro per il mondo e presso i più autorevoli festival internazionali.
L'evoluzione di questo percorso cinematografico di Arcand si concretizza con "La caduta dell'Impero americano" che pur rifacendosi, come titolo, alla celebre pellicola del 1986 "Il declino dell'Impero americano" non ha nessun nesso di continuità con il film degli anni '80 (a differenza invece di "Le invasioni barbariche" e "L'età barbarica" del 2007) pur riprendendone molti temi e molti spunti.
Prima scena: un uomo e una donna stanno parlando al tavolo di una semplice tavola calda di Montreal. La radio di sottofondo parla delle imprese sportive dei divi dell'hockey. I due al tavolo si stanno lasciando. Parlano della loro vita monotona. Lui (il protagonista Pierre-Paul, interpretato da Alexandre Landry) sostiene di essere troppo intelligente per essere ricco, per essere affermato, per essere potente. Del resto "George Bush, Silvio Berlusconi, Tony Blair e Nicolas Sarkozy" sono delle nullità umane. Eppure sono arrivati da qualche parte.
In questo dialogo di introduzione alla storia (quanto mai piena di avvenimenti, sottotrame e colpi di scena) c'è la quintessenza del cinema di Arcand. Non solo perché cita Berlusconi, come la pellicola Premio Oscar "Le invasioni barbariche". Ma perché attraverso il mezzo cinematografico, lo spettatore ha la possibilità di addentrarsi nella mentalità e nell'analisi quasi sociologica del protagonista.
"La caduta dell'Impero americano" è infatti il cinema attraverso le lenti teoriche di Arcand. Dopo la discussione iniziale dei due fidanzati, parte subito l'azione, il paesaggio urbano, la musica rap del ghetto. Pierre-Paul è un laureato in filosofia che però fa il fattorino perché "si guadagna più che all'università". Pensa di farsi troppi problemi, di essere troppo intelligente e dunque poco propenso al successo.
Del resto "il miglior venditore di aspirapolveri è quello che dice al cliente che sarà felice se acquisterà quel prodotto. Una persona intelligente invece non penserà mai che un'aspirapolvere possa rendere felici le persone. Ma sarà il primo, lo stupido, a fare carriera in azienda". Un giorno però assiste casualmente ad una rapina in un locale. Si trova davanti un numero altissimi di dollari canadesi. Che decide di prelevare.
La polizia sospetta di lui. E il protagonista non sa cosa fare. Inizialmente va ad escort. Poi escogita (attraverso la sua...escort) metodi finanziari per farla franca assieme ad un novello genio della finanza ed altri contatti che assume nel corso della vicenda. Ma l'idea è sopratutto quella di colpire la società, la finta meritocrazia da venditori di aspirapolveri, e della superficialità dilagante.
In questa "Rapina a mano armata" il regista ci mostra uno spaccato della società canadese che soli pochi chilometri di confine hanno salvato da un'apparente grettezza insita nell'animo statunitense. E da questo punto di vista (come testimoniano le scene didascaliche riguardanti il riciclo di denaro attraverso i 5 continenti, di gran lunga il frammento meno efficace del film) la stessa vicenda narrata appare un pretesto per disegnare un affresco in cui ogni personaggio rappresenta un fenomeno, una conseguenza sociale, un'occasione di critica ed autocritica.
Aspasia, la prostituta di lusso. Cresciuta col mito che per arricchirsi vale la pena anche prendere le botte da un anziano marito ("meglio piangere su una rolls royce che in un vagone della metro", in Italia il concetto, musicalmente parlando, va molto di moda in questo periodo).
Ci sta il trader finanziario (e motociclista) Sylvain che sottolinea "io sono un criminale. Non un avvocato. Sono onesto io" (ricorda alcune frasi di Groucho Marx, sempre sulla professione forense). Ci sta manager Wilbrod, quasi accompagnatore (anche se compare a metà film) dello spettatore e narratore di stati d'animo e commenti in tempo reale quasi da alter ego del regista.
E poi ci sono i poliziotti. Ambigui, cattivi, dai metodi spicci.
Ricordano le parolacce di Gene Hackman e Roy Scheider ne "Il braccio violento della legge". Poliziotti cattivi in un contesto in cui l'happy ending e le certezze cementate del sogno americano sono solo una pia illusione. In questo affresco dunque, in questa forte e convinta idea di società di Arcand, il cineasta canadese realizza una pellicola magistrale nella sua vigoria e nel suo voler raccontare una storia innovativa attraverso pensieri e filosofie narrative ormai consolidate da decenni.
In questa storia non ci sono vincitori, non ci sono vinti.
Ma solo dubbi.
Uno scetticismo nei confronti di un certo tipo di conformismo, una critica (quasi anarcocapitalista, a dire il vero) nei confronti dello stato, lo scetticismo nei confronti della capacità della società di perseguire il bene comune. Più uomini che lavorano tra loro e ideano curiose società filantropiche (a mo' di riciclaggio), meno stato e meno governo.
Questa sembra dirsi Arcand.
Ma l'impressione che il regista (nonostante la contingenza storica) provi amarezza e si senta uno sconfitto resta viva nell'aria. E' la contraddizione di una società che (forse) sta per finire, e l'indeterminatezza del pensiero che però (quanto mai come in questo film) si rende una bellissima opera di cinema per tutti noi.