La casa di Jack
Per molti anni ho girato film su donne buone, ora ho fatto un film su un uomo malvagio. Un’affermazione eufemistica da parte di Lars Von Trier di fronte alla vastità della violenza e dell’ambizione del suo nuovo film, presentato allo scorso Festival di Cannes. In La casa di Jack non c’è davvero alcun aspetto che non venga amplificato al massimo. Compreso il minutaggio: 151 minuti, sentenzia impietoso l’orologio. Una visione impegnativa in tutti i sensi: asternersi dunque spettatori non particolarmente propensi al cinema autoriale o alla ricerca di film spensierati con cui concludere in leggerezza il fine settimana.
È un abisso profondissimo e oscuro quello in cui continua a scavare la cinematografica di Lars Von Trier, che ha da sempre una vocazione a temi umani e universali e insieme il punto di vista tagliente di un uomo dal grande cinismo, che sembra non credere in nulla. Dire che il suo cinema sia impermeato dal pessimismo cosmico non comincia nemmeno a dare un’idea dell’America senza speranza ritratta in questo film. La casa di Jack racconta infatti attraverso “5 incidenti” la trasformazione di un uomo dalla psiche complessa in un serial killer ferocissimo e baciato da un’inspiegabile fortuna.
Interpretato da un Matt Dillon da antologia, Jack si aggira per le strade statunitensi degli anni ’70 con il suo furgoncino rosso e compie indisturbato una sequenza impressionante di omicidi. Solo 5 di questi però ricoprono ai suoi occhi un’importanza particolare e per questo motivo verranno raccontati dal protagonista a una misteriosa voce fuori campo che ne ascolta il lungo racconto, non troppo impressionata. Non a caso le cinque vittime sono donne, che sembrano sempre riuscire a tirare fuori il peggior distacco disumano dal protagonista psicopatico. Si comincia con una donna particolarmente fastidiosa che diventerà il “battesimo del sangue” per il serial killer e si continua con sconosciute a cui Jack bussa alla porta, madri che porta in gita con i figlioletti, donne sole che seduce e poi uccide.
Non c’è passato in cui scavare per chiedere spiegazioni e non c’è nemmeno un contrappasso nel presente. Anzi. Un grande motivo di disperazione per Jack è l’assoluta indifferenza dell’universo verso la sua violenza. Il caso sembra sempre giocare a suo favore, tanto che via via che le sue azioni si fanno meno studiate e ineccepibili, ci pensano temporali fortuiti o altre bizzarre casualità a coprirne le tracce.
I discorsi che il film fa sono tanti e molto complessi. Jack il serial killer e Lars il regista controverso sono sovrapponibili nella misura in cui entrambi parlano della propria arte. L’intera vicenda di Jack trascende il reale e spiega più riprese quale sia il vero messaggio del film: la natura immortale e violentissima dell’opera artistica, la cui creazione uccide e mutila. Nel caso dei film di Trier si potrebbe parlare della morte delle apparenze o delle convenzioni (cinematografiche e sociali), procedimento che viene sublimato nel film con assassini concreti.
Il risvolto più sorprendente è che qui il grande regista danese sembra molto meno distaccato che in passato. Quella che altrove era una mancanza (di sentimento, di partecipazione) qui diventa una sottrazione negativa, così come la luce sulla pellicola fotografica si trasforma in spazio nero. Il discorso sull’arte si presta molto bene a trasformarsi in riflessione sul divino, la fede e la morte. Nell’ultimo segmento di La casa di Jack Lars Von Trier si misura addirittura con Dante Alighieri e la sua Divina Commedia: un azzardo ardito, condotto in maniera eccellente. Un ottimo modo per salutare Bruno Ganz, protagonista dell’ultimo segmento, scomparso qualche giorno fa. Le opinioni espresse da Von Trier possono essere discutibili. A prescindere da come la pensiate è degno di ammirazione per come approcci temi tanto universali con la disperazione di un uomo che non crede in niente, che ha esplorato a fondo l’abisso dentro sé stesso alla ricerca della sua vera essenza. La casa di Jack è molto personale ed emotivo nella misura in cui rivela che il suo regista non può né riesce a smettere di cercare, anche negli angoli più bui di quella che gli altri chiamano anima.