La città proibita, recensione: come Gabriele Mainetti regista di mazzate in Italia nessuno mai

Gabriele Mainetti è il re solitario dell’action in Italia. La città proibita conferma il suo enorme talento in un genere che, senza di lui, in Italia nemmeno esisterebbe.

di Elisa Giudici

La città proibita impone una scelta di campo netta, precisa. Anche un po’ d’onestà intellettuale da utilizzarsi per mettere in chiaro che: è un film grandioso, per molti versi impensabile in Italia, eppure imperfetto e, in ultima analisi, non pienamente riuscito. Fa un po’ male dirlo, perché è un’operazione che non si può che definire virtuosa, controcorrente e fatta di puro amore per il cinema, a partire dall’evidenza che Mainetti lavora con un budget di 16 milioni di euro. Non pochi per il cinema nostrano, investiti per realizzare una pellicola di genere che presenta una sfida ben più rischiosa di una classica commedia sbanca botteghino. Lo fa dopo l’esito, va ammesso, disastroso del precedente Freaks out, che il pubblico sembra aver sostanzialmente ignorato.

Invece da Freaks Out Mainetti ha imparato tanto e fa un po’ specie scriverlo perché, quando gira e quando parla del suo cinema, lo fa con una maturità tale che sembra un veterano, nonostante poi sia solo al terzo lungometraggio di carriera. Questo perché lavorare sul cinema di genere a quel livello e in questa nazione è un continuo lottare contro la frizione di un “non si può fare” istantaneo che si leva quando un regista italiano dice ci voler girare un wuxia, un film di arti marziali.

Le arti marziali piombano a Roma e nel cinema italiano grazie a Mainetti

Dentro La città proibita ci sono due film che si contendono il minutaggio di 138 minuti. Uno è riuscitissimo ed è quello che, volgarmente, potremmo definire “un film di mazzate”. In maniera gergale ma precisa, perché Mainetti guarda proprio al cinema di genere orientale e nemmeno a quello più imbrigliato e globalizzato. Ai B movie, a quello che ha consumato a palate fin da ragazzino, senza distinguere tra autorità, commercialità o territori ben più oscuri, cult, da iniziati. A partire da L'urlo di Chen terrorizza anche l'occidente, film con Bruce Lee e viene alle mani con Chuck Norris nella sua Roma.

La città proibita è una sorta di versione moderna, palatabile, spendibile di quel cinema che ruota attorno alla fisicità atletica della protagonista, a un corpo forgiato dalla pratica marzialista sin da giovanissima, al modo nervoso  e fulmineo di muovere gli arti e muoversi con precisione nello spazio. Anche perché Mei (interpretata dalla cascatrice Yaxi Liu alla prima prova attoriale) praticamente non parla mai, almeno non in italiano. Piomba nel film passando da una Cina che profuma di Cinecittà a un ristorante di Piazza Vittorio, cuore multiculturale di una Roma che, ancora una volta, è molto più che un paesaggio o un orizzonte.

Quando Mei chiude la prima, esaltante, lunghissima scena di combattimento, piomba nella realtà romana e in quella narrativa del film. Qui Mainetti è coadiuvato da due pesi massimi della sceneggiatura italiana contemporanea, i richiestissimi Davide Serino e Davide Bises, che si sono appena occupati tra gli altri progetti di M. Il figlio del secolo. Mainetti li instrada sull’ennesimo racconto della sua Roma ma, data la sua lentezza nel realizzare film, è una città molto cambiata da quella di Jeeg Robot. L’accento è il medesimo, la filosofia capitolina di fondo rimane, ma c’è un’esigenza di cambiamento di fondo che è il nerbo del film. Un cambiamento disperato e che alle volte snatura rapporti, tradizioni, famiglie e vite. Mei infatti è arrivata a Roma per trovare la sorella Yun, scomparsa insieme ad Alfredo (un Luga Zingaretti generosissimo considerando l’apporto richiesto dal film a un attore di questa levatura), il proprietario di un ristorante di tipica cucina romana a qualche portone di distanza da un locale cinese.

Mainetti ha imparato la lezione di Freaks Out

Mei piomba nella cucina di Marcello (Enrico Borello), cuoco e figlio di Alfredo, cercando la sorella Yun. Lo coinvolgerà in questa lunga, sanguinosa ricerca che rivolterà mezza Roma e permetterà a Mainetti d’intavolare una serie molto cospicua di combattimenti. Lezione di Freaks Out, come si diceva, imparata: non una lunga, interminabile sequenza d’azione, ma un continuo ritornare ai combattimenti variando sulla scala della drammaticità - dal comico al tragico - e sul registro degli stili, dei luoghi, delle interazioni con avversari e oggetti dell’ambiente circostanze. C’è il classico combattimento ambientato nelle cucine di un ristorante, c’è quello in un atmosferico dietro le quinte della stazione Termini tra sbuffi di vapore e condotte, il confronto tra Mei e una serie infinita di sgherri in una bisca cinese clandestina, con lei che usa le tavaglie come faceva Zhang Ziyi con le maniche dell'abito in la foresta dei pugnali volanti.

Mei, praticamente muta senza il traduttore del cellulare, parla con la sua fisicità. Il cuore emotivo del film è invece Marcello, che affronta un inaspettato riassetto della sua famiglia, tra i sogni spezzati della madre Lorena (una Sabrina Ferilli nella parte più da Ferilli che ci sia) alla rabbia per l’abbandono paterno subito da Alfredo. Ci sono tantissimi padri, veri e surrogati, positivi e negativi in La città proibita: il migliore è forse Marco Giallini nei panni di uno strozzino di nome Annibale. Va sottolineato come la sua vocalità sia ormai quasi non intellegibile senza sottotitoli (e non solo per via del suo romano davvero stretto) ma rimane capace di piantare in camera un’occhiata finale che spiega tutto quello che c’è da far capire, a livello emotivo, facendo le veci di un intero film in merito con ciò che è stato e sarebbe potuto essere.

Nelle sequenze d’azione, come si diceva, Mainetti non ha eguali. Non in Italia, dove è un solitario re su un trono che nessuno tenta di usurpargli: quello del miglior regista di genere in circolazione. Guardando come ricama insieme infinite sequenze coreografate con movimenti di cinepresa che ricordano i più bravi colleghi internazionali - un Edgar Wright, gli stunt divenuti registi dietro a successi come Atomica Bionda - si capisce perché Lionsgate gli avesse proposto di dirigere John Wick 2.

Personalmente ho apprezzato molto come, pur rimanendo nel territorio dell’intrattenimento, La città proibita cerchi di essere sfidante, portando lo spettatore a guardare in faccia l’inevitabilità, l’importanza stessa del cambiamento, anche quando colpisce la vita, la famiglia, la città e la nostra identità come siamo soliti immaginarli, ovvero inamovibili, immutabili. Anche a costo di essere amari, cinici. Chi non cambia muore e, se non è ancora morto, è un dinosauro, un morto vivente, una vestigia da un passato polveroso. Cambiare però fa paura, è pericoloso e tornare a vivere spesso comporta ferire le persone intorno a noi. O morire. Non temi da poco, calati in un racconto di una Roma multietnica e contraddittoria, che alterna cartoline turistiche, dichiarazioni d’amore ma anche amare prese di consapevolezza da qualcuno che l’ama follemente. Questa necessità di cambiare - e la sua pericolosità - la si potrebbe applicare anche al cinema italiano, a cui Mainetti continua a dare la scossa. 

Il problema è che la parte narrativa e romana, il cuore emotivo e riflessivo del film, proprio non funziona. A differenza dell’esordio Lo chiamavano Jeeg Robot, i personaggi di La città proibita rimangono tali, per quanto ben intepretati. Sono vessilli di messaggi e concetti, non prendono mai vita. In più il film qua e là ha qualche incoerenza ed è azzoppato da due, tre finali di troppo (laddove ne avrebbe uno particolarmente fulminante a 15 minuti dalla fine vera e propria). 

Il limite di Mainetti qui è di non riuscire mai a tenere insieme la spregiudicata spensieratezza del film di genere in cui si lotta e ce le si dà di santa ragione perché sì al racconto talvolta cinico, talvolta duro che vuole fare di Roma e del presente. Da un lato si dimostra in grado di scelte forti (vedi come appare Zingaretti quando fa la sua comparsa a metà film) ma dall’altro sembra tutta teoria senza la vera vita dentro.