La Cocina supera l’ossessione del food porn e già per questo, forse, merita l’Orso d’oro: la recensione dal Festival di Berlino
Ambizioso, eccessivo, divisivo: La Cocina è un film che vorrei stroncare senza appello, ma capisco e condivido il punto di vista di quanti sperano che vinca l’Orso D’oro.
Mentre ancora scorrevano i titoli di coda di La Cocina sentivo già pronta sulla punta dei polpastrelli la stroncatura che a mente calda mi aveva ispirato il film messicano in concorso al Festival di Berlino 2024. Il suo regista Alonso Ruizpalacios è infatti vittima come il protagonista Pedro della sua stessa ambizione e sicurezza in sé, della confidenza esagerata nel perseguire i suoi obiettivi, senza domandarsi se quello che ha scelto sia il metodo migliore.
A mente più fredda, complice l’embargo che impedisce di pubblicare le recensioni fino alla prima mondiale, i pregi della pellicola rischiano di superare i difetti. Sì, La Cocina è eccessivo e iperbolico e oltre a guazzare nei rifiuti, nello sperma e nella Coca-Cola alla ciliegia si sollazza nella sua stessa capacità di mettere in scena grandi scene corali di difficoltà tecnica evidente. Eppure, se gli si perdona l’eccessiva tracotanza e l’entusiasmo a volte incontrollato, è evidente come ci si trovi davanti a un film con una visione e delle idee ben a fuoco. Troppe idee buone, di cui forse si sarebbe dovuta dare una selezione più attenta, per farle risaltare ancor di più.
Oltre il food porn, finalmente
Girato in bianco e nero, con brevissimi flash di colori primari in alcuni passaggi chiave e in un formato che alterna i 16:9 ai 4:3, la Cocina è un adattamento libero dalla commedia teatrale omonima a firma di Arnold Wesker, che nel 1957 riscosse grandissimo successo internazionale.
Siamo ancora una volta in una cucina di un ristorante dai ritmi frenetici in cui succede davvero di tutto. Lo stress del personale è alle stelle, la colonna sonora è scandita dal rumore incessante della comande che vengono stampate a ciclo continuo dalla macchinetta dedicata. Le cameriere in uniforme fanno avanti indietro dai fornelli ai tavoli in sala, battibeccando con gran parte dei cuochi. La cucina è abitata prevalentemente da immigrati irregolari originari del Sud America: Messico, Uruguay. Dietro la facciata splendente del ristorante The Grill di Manhattan si consumano infatti le vite e i sogni di un pugno di migranti irregolari.
Prendete The Bear e The Menu, ma immaginateli diretti da Robert Altman o Alejandro González Iñárritu, ambientati in un ristorante in cui la pornografia dell’impiattamento piacione è bandita. The Grill infatti è una trappola per turisti in cui le condizioni igieniche tra personale che fuma mentre cucina e amanti che copulano nella cella frigorifera, ecco, diciamo non sono ideali. La Cocina di fatto è pochissimo interessato al cibo e molto all’ambiente razzista, gerarchizzato, machista che consente alle cucine di Manhattan di mantenere i loro ritmi folli durante i rush giornalieri. Il Sud America che fa da mangiare per gli Stati Uniti, i migranti che replicano tra di loro il modello sociale che li pone ai gradini più bassi dell’ascensore sociale, senza nemmeno sapere se sia funzionante.
L’America non è una nazione
La stampa sembra volere La Cocina come Orso d’Oro. Non è difficile capire perché: Ruizpalacios cucina un film politico sul rapporto tra Stati Uniti e America (”l’America non è una nazione!” ricordano più volte i personaggi latini ai bianchi) in cui s’intrecciano le solitudini di protagonisti che conoscono “la fatica di dover compiere uno sforzo ogni volta che parlano, non potendo usare la propria lingua”. Sa essere poetico e poi spaventosamente realista nel tratteggiare la storia d’amore tra una cameriera gringa Julia e Pedro, un cuoco irregolare messicano talentuoso ma a cui la cucina tira fuori il peggio di sé, in un turbinio di cattiveria, egoismo, machismo e sfrontatezza.
Nel grande cast corale si alternano tantissime storie viste dall’ottica di Estella (Anna Diaz), una giovanissima cuoca appena arrivata a Manhattan, finita in cucina quasi con l’imbroglio, incapace di parlare inglese, muta testimone del crescendo di follia che si sviluppa nel tutti contro uno ai fornelli.
Una cucina che si allaga di Coca-Cola alla ciliegia ma non si ferma, in una frenesia che diventa occasione per uno sfoggio registico memorabile, prima che il dramma shakesperiano raggiunga il culmine. Al coincidere dell’ora di punta il film scatena due lunghissime sequenze in cui Pedro perde il controllo, riuscendo a fermare per qualche secondo l’inarrestabile macchina da guerra che è la cucina de The Grill.
Diaz, Mara, Briones: tre ingredienti pregiati per La Cocina
Cosa non va dunque? Che come il suo ipertrofico personaggio protagonista, La Cocina non vede ciò che è veramente importante, non sa dettare le proprie priorità. Tenta di essere tanto, troppo, tutto, finendo per diventare eccessivo, indigesto. Non sarebbe un Orso d’Oro così ingiustificato, ma mi aspetto risulti divisivo come un Birdman, appunto perché non conosce limiti, né temporali né d’ambizione.
Da sottolineare le ottime performance del trio di protagonisti, tra cui spicca una Rooney Mara fortemente voluta dal regista. Lontana dai ruoli di Millennium e Carol che l’hanno resa una star, si conferma un’interprete davvero poliedrica. La sua Julia è sfrontata, misteriosa, estroversa, sfacciata, lontana anni luce da quel tipo di typecasting “introverso” a cui viene spesso associata. Ha per le mani un grande ruolo e sfrutta al meglio. Raúl Briones dimostra la stessa energia drammatica di Adrien Brody, oltre a vantare una certa somiglianza col collega. Ha quel tipo di ruolo ad altissimo voltaggio e dalla drammaticità così esasperata che un certo tipo di star hollywoodiana a caccia di Oscar ucciderebbe per avere. Lui riesce a metterci dentro anche l’umanità e non è poco. Notevole anche l’emozione che Anna Diaz riesce a mettere nel suo personaggio, tesitmone per lo più silenzioso degli eventi.
Più passa il tempo più mi passa la voglia di stroncare La Cocina, perché a mente fredda i suoi eccessi e la sua auto-indulgenza autoriale sbiadiscono nella memoria rispetto alla storia d’amore romantica ma brutale che racconta, agli inganni che gli Stati Uniti servono ogni giorno ai suoi protagonisti, al suo commentare senza iperboli la cucina, il cibo, il mondo del lavoro, la vita. Non è riuscito, ma sbaglia nel modo giusto da giustificare un posto importante nel Palmares, forse anche sul gradino più alto.