La Forma dell'Acqua
Era probabilmente dai tempi de Il Labirinto del fauno, datato 2006, che il regista messicano Guillermo del Toro non riusciva più a trovare un’ispirazione convincente, efficace e ispirata come quella del film sopracitato (chi vi scrive ha letteralmente amato Pacif Rim, ma siamo in un altro campo). The Shape of Water - La Forma dell’Acqua, riprende il percorso interrotto, portando sullo schermo una fiaba cupa, dark ma che trasmette un sentimento assolutamente vero e riconoscibile.
Le forme dell’amore
La storia è ambientata a cavallo degli anni '60, in quegli Stati Uniti coinvolti fino al collo nella Guerra Fredda con l’Unione Sovietica. Elisa (Sally Hawkins), una donna affetta da mutismo, lavora in un laboratorio segreto governativo, all'interno del quale è custodita una sorta di creatura anfibia che alcuni scienziati del posto vorrebbero sezionare e studiare; lei invece riesce ad entrare in contatto con questo “mostro” attraverso dei semplici gesti. Il loro rapporto diventa così forte da spingere Elisa a far scappare la creatura dal laboratorio.
Questo l’incipit di una storia che, se non lo leggessimo dal nome della locandina, agli occhi di chi guarda potrebbe non sembrare nemmeno un film di Del Toro. Il regista infatti attinge a piene mani da una serie di storie e autori che elabora, unisce e sviluppa all’interno della sua personale visione. Nei toni e nella splendida fotografia di Dan Laustsen, così come nella delicata colonna sonora di Alexander Desplat, è impossibile non notare un certo rimando al primo Burton (Edward Mani di Forbice, Batman), così come è assolutamente innegabile una certa influenza di pellicole come Il Mostro della Laguna Nera, o il concetto di non accettazione di Frankenstein.
In questa ratatouille cinematografica Del Toro non si perde, anzi, esalta una storia che pur basandosi sul concetto dell’amore (quello vero, viscerale e carnale),racconta più di quello che banalmente ci sembra di vedere sullo schermo. Parla di una società contaminata in cui il manifesto dell’esagerazione dell’”american dream” è perfettamente incarnato all’interno del personaggio del “cattivo” Michael Shannon; la stupenda e bravissima Sally Hawkins e la collega Octavia Spencer (l’amica Zelda, all’interno della pellicola) che insieme al mostro ricreato in digitale - sulle movenze di Doug Jones -, rappresentano l’altra parte della medaglia, quelli che vengono vissuti come diversi ed emarginati, ma che possono nascondere molto più di quello a cui ambiscono i personaggi che popolano il laboratorio capitanato da Shannon. Un contrasto forte, su cui si basano tutti gli equilibri di una sceneggiatura a tratti perfetta.
Una storia d’amore agrodolce, tutt’altro che disillusa, ma in grado di giocare sulle fragilità di un singolo sentimento sentimento, per raccontarne di ancora più grandi. Non si poteva chiedere ritorno migliore ad un regista che dimostra di non aver perso quel tocco che gli è sempre stato riconosciuto, anche nei momenti meno alti della sua carriera.
Dopo aver raccolto consensi a Venezia, ci troviamo davanti ad un altro serio candidato per ambire ai premi più importati degli Oscar che si terranno il prossimo marzo, in particolare per una Sally Hawkins che merita molto più di quello che le è stato riconosciuto fino ad oggi.
Piccola curiosità: la somiglianza tra “il mostro” e Abe Sapien (l’amico di Hellboy nel lungometraggio diretto dallo stesso Del Toro e ispirato al fumetto) ha fatto pensare ad una sorta di prequel ispirato a quel personaggio. I due film, invece, sono totalmente slegati tra loro.