La Sirenetta, recensione: un inaspettato colpo di coda di Disney
Nato sotto infausti presagi e realizzato con grandi difficoltà, La Sirenetta sembrava destinato al fallimento, invece riesce a non prendere un granchio: la recensione.
Sorpresa: il remake live action di La Sirenetta è un film abbastanza riuscito, incredibilmente migliore rispetto a quanto la sua travagliatissima storia lasciasse presagire. Non significa che sia un grande film, ma va dato merito al regista Rob Marshall (Chicago, Memorie di una geisha) di aver cavato il proverbiale ragno dal buco, senza prendere un granchio. O quasi.
Disney su questo versante può dunque tirare un sospiro di sollievo. La storia recente della Casa del Topo è costellata di rifacimenti dei suo classici animati con interpreti in carne e ossa per nulla soddisfacenti, quando non tremendi. La Sirenetta tecnicamente poneva sfide non da poco (le scene sott’acqua, i numeri musicali, l’armonizzazione tra animali creati digitalmente e interpreti umani) e ha rischiato di perdersi nella bufera delle polemiche e nei ritardi causati della pandemia.
L’attenzione del pubblico su questo titolo si è accesa sopratutto da quando la giovane attrice afroamericana Halle Bailey è stata scelta per interpretare Ariel, scatenando il finimondo. La sterile contesa sull’opportunità di scegliere un’attrice non caucasica per il ruolo di Ariel continuerà a mettere in ombra una componente fondamentale del film originale, qui rispettata, ben più inclusiva e politicamente schierata del casting del film.
Il grande merito di Rob Marshall infatti è stato quello di mantenere il carattere ribelle e l’anelito alla libertà della protagonista originale, costruendogli intorno un mondo diviso e impaurito da ciò che è diverso.
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Negli ultimi live action Disney remake di grandi classici animati ci si è spinti verso un approccio sempre più conservativo, fino ai limiti dell’auto-plagio. Tanta e tale è la pressione del pubblico a non variare un materiale originario che, ironia della sorte, è a sua volta considerevolmente rimaneggiato.
La Sirenetta è un esempio perfetto dell’approccio creativo e talvolta distruttivo di Walt rispetto alle sue fonti, essendo la versione Disney lontana anni luce dalla fiaba di Andersen per trama, toni e messaggi. Rob Marshall ha un approccio più conservativo, ma non rimane incatenato al film originale e questo è il suo principale merito, oltre al suo gusto classico per la messa in scena dei numeri musicali, rimasto immutato da Chicago. Molto classico sì, ma molto adatto a questo film.
La sua Ariel ha lo stesso spirito esuberante e un po’ superficiale della versione animata, ma è calata in una realtà in cui anche altri personaggi sono esplorati allo stesso modo, a partire dal principe Eric (Jonah Hauer-King).
Il film si apre con una citazione di Andersen che fa presagire una nota drammatica che in realtà non c’è, perché la storia ricalca abbastanza fedelmente il film del 1989. Ariel è la più giovane delle figlie di Re Tritone (Javier Bardem), che proibisce alla prole di andare in superficie da quando la moglie è porta per mano di alcuni uomini.
Ariel però è curiosa, affascinata dagli umani, di cui raccoglie le vestigia. Durante una tempesta disobbedisce al padre e salva un marinaio caduto in mare durante il naufragio. Il canto di Ariel ammalia Eric, che in questa versione è sì il principe dell’indefinita isola pseudo-caraibica dove è ambientata la vicenda, ma anche l’orfano e il figlio bianco adottivo della regina di pelle scura.
In questo film viene tracciato un parallelo tra Ariel ed Eric. Entrambi appartengono a un mondo impaurito e ostile verso ciò che è diverso, entrambi non condividono questi timori e anzi, subiscono il fascino di ciò che è ignoto e inesplorato.
Si è parlato molto degli ingentilimenti del film rispetto ai passaggi considerati “controversi” dalla sensibilità contemporanea della controparte animata. Il testo della canzone Baciala in cui Eric viene spronato a baciare Ariel per interrompere l’incantesimo di Ursula (Melissa McCarthy) è forse l’esempio più dibattuto ed estremo. A livello cinematografico, i cambiamenti più dibattuti influiscono poco e niente al risultato finale del film.
In realtà si è intervenuti anche altrove, sopratutto sui personaggi adulti di Tritone e Ursula. Il primo ora è meno burbero e oppressivo, anche grazie a un Javier Bardem che infonde nel film un caldo sentimento paterno. La seconda non ha lo spazio che meriterebbe e non è libera di essere cattiva quanto potrebbe: a parere di chi scrive è controproducente chiedere ai cattivi di essere sempre coerenti nell’esserlo, magari con una motivazione tragica e/o le attenuanti generiche del caso. McCarthy dà il meglio, ma il suo personaggio non decolla perché non le si dà la possibilità di essere cattiva perché sì, senza un perché e orgogliosa di esserlo. È un problema e non solo cinematografico.
Il film però non è timido e anzi, quietamente si fa via via più schierato, per non usare l’espressione “politico” che suonerebbe eccessiva. Il punto della pellicola sta nel finale, che ovviamente non anticipo. Marshall poteva ricalcare la fine del film del 1989 o guardare alla conclusione tragica della fiaba originale.
Sfruttando il messaggio di libertà e accettazione suggerito dal personaggio di Ariel, costruisce una sua conclusione che, senza mai abbandonare il perimetro della fiaba, parla innegabilmente al presente. È nel finale che il film trova la sua ragione d’essere e il suo colpo di coda, se permettete il gioco di parole.
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Rob Marshall dunque è sicuramente tra i promossi: il suo approccio classico e la sua conoscenza del genere musical gli permettono di gestire con grande naturalezza la transizione tra parlato e cantato, tallone d’Achille del genere musical. Inoltre era fa un po’ che un live action Disney non aveva quell’atmosfera fiabesca propria del canone animato, forse addirittura dal Cenerentola di Kenneth Branagh, involontario capostipite di questo filone di remake live action iniziato nel 2015. La regia di Marshall dimostra che ancora una volta per quanto il brodo possa essere riscaldato, la competenza di chi sta dietro la cinepresa è essenziale.
Giudizio positivo a metà per la giovane Halle Bailey nei panni di Ariel. Vocalmente è impressionante l’agilità con cui scala le note più alte: è una formidabile cantante. Ha però il difetto di molti “theatre kids”, ovvero quanti sin da giovanissimi hanno studiato canto con Broadway nella testa e nel cuore. Il suo virtuosismo è un po’ esasperato e toglie naturalezza al canto in favore di una fierezza in certi contesti non così necessaria. Ha la grande fortuna di avere l’esuberanza necessaria a rendere la sua Ariel vivace e vivida, ma si vede che è un’attrice ancora acerba per come tiene la scena.
Scena non semplice, va detto. Il film, girato in Sardegna negli esterni e ai Pinewood Studios di Londra per le scene in mare e quelle subacquee, ha degli evidenti limiti tecnici nel rendere fluidi e realistici i movimenti degli abitanti dell’oceano. C’è qualcosa che ancora la computer grafica non riesce a fare? Se anche Disney è capitolata, evidentemente sì. Ripensando a certe sequenze subacquee di Avatar: La via dell’acqua, non si può che parlare di fallimento. La nuotata delle sirene e le movenze subacquee sono scattose e artificiali, va detto.
Si è tanto detto sugli animali creati digitalmente da Disney per affiancare Ariel. Purtroppo bisogna confermare le prime impressioni negative, soprattutto su Flounder e Sebastian. Talvolta sono persino sinistri nel loro fotorealismo ritoccato per renderli…più carini? Sul doppiaggio italiano di Sebastian affidato a Mahmood invece non mi esprimerò, avendo visto il film in lingua originale.
I limiti tecnici sono dunque il difetto maggiore del film, che però ha altri passaggi deboli. Su tutto non convince il contesto poco definito dove si muovono gli umani. L’isola di cui Eric è principe è tanto abbozzata dalla trama da sembrare un luogo artificiale più che fiabesco. Eppure proprio nelle dinamiche tra umani e sirene passate e presenti (su tutte la morte della madre di Ariel) ci sarebbe grande potenziale da sfruttare. Il film un po’ accenna, un po’ spiega, un po’ nicchia, facendo solo gran confusione.