La stanza accanto, recensione: nessuno conosce la morte come Almodóvar
Anche in lingua inglese, Almodóvar non sbaglia, girando un film che dimostra come sia il regista e lo scrittore vivente che conosce più intimamente la morte ed è in grado di raccontarla a profondità quasi inesplorate.
Come tutti film di questo ultimo decennio di produzione almodovariana, La stanza accanto ha un inizio asciutto, secco, che sa di passo falso. Una scrittrice incontra a un firma copie l’amica di un’amica che le confida che una conoscenza comune è gravemente ammalata. Ingrid (Julianne Moore) riallaccia i rapporti con l’amica Martha (Tilda Swinton), fotografa di guerra con un cancro alla cervice al terzo stadio.
La storia collassa a breve dentro un flashback che sembra una sterzata rispetto alla linea narrativa principale, un po’ come accadeva nei film degli anni ‘80 del regista, costruiti su una serie infinite di matrioske narrative. Quando torniamo al presente però viene spiegato il senso del titolo del film. È il momento in cui Almodóvar, che già dalla prima scena aveva spinto con incredibile precisione la prima pedina del domino, ci fa finalmente notare la complessa architettura di tessere che stanno collassando una dopo l’altra.
Non anticiperò altro sulla trama del film, perché parte dell’esperienza di visione sta proprio nel seguire Ingrid nel suo riallacciare i legami con una donna che, giocoforza, si trova a fare i conti con la morte. Dapprima le cure funzionano e “la sopravvivenza si rivela quasi deludente” una volta “abituatisi all’idea di lasciare la festa”, poi la situazione si complica e Martha chiede una prova d’amicizia all’amica. Segue una vacanza in cui le due rinegoziano la loro relazione (che, a sorpresa essendo un film di Almodóvar, non assume mai tinte queer) alla luce della morte che incombe su una e spaventa l’altra.
Il trionfo di Almodóvar sulla morte come esperienza angosciante
Non si può che descrivere La stanza accanto come un film sulla malattia e sulla morte, a rischio però di fargli un grave disservizio. L’argomento è in teoria angosciante, ma a conti fatti il film è al contempo un sereno memento mori e un’incredibile trionfo sulla morte.
La morte è mera materia per il dibattito filosofico tra le due. Non solo Martha non è sofferente, non solo è circondata da architetture di design e vestita di pezzi couture, ma Almodóvar trasfigura la sua interprete Tilda Swinton in un dipinto, letteramente, in un tableau. Il rapporto con l’arte e la scrittura porta il regista spagnolo a ricreare il celebre dipinto “Il mondo di Cristina” in un flashback a inizio film, trasformando poi Marta in una comparsa di un dipinto di Hopper. C’è una scena memorabile che sfuma in verde (un colore nefasto, luttuoso nel cinema del regista) in cui Swinton vestita di un tailleur giallo più che il personaggio di un film sembra un’icona di una religione pop, un quadro di Andy Warhol.
Eppure una delle scene più intime e toccanti del film la vede, non a caso, vestita di colori neutri, lontana da pose citazioniste. È sdraiata sul letto e quando si affaccia Ingrid alla porta, volta lo sguardo verso di lei, l’espressione tenerissima. È questione di qualche secondo, ma chi ha mai perso una persona cara a poco a poco, riconosce quello sguardo: lo spettatore, Ingrid e Martha si guardano con un solo pensiero in mente “quando sarà morta per davvero, sarà sdraiata così, in questa posa”.
Eppure La stanza accanto non è un film angosciante, anzi. Si appoggia sulle spalle di giganti come James Joyce per raccontare per immagini la quiete che raggiunge chi arriva ad accettare la morte come parte della propria esistenza. Non è un caso che Almodóvar sia un esperto in materia: nel suo film autobiografico Dolor y Gloria raccontava il suo corpo come “la geografia del dolore”, martoriato per decenni da una serie infinita di mali. Il male fisico del dolore e quello spirituale di sentire affievolire la passione verso interessi, arti, passioni, persino verso il sesso (”lo scudo che rende sopportabile la guerra”) sono raccontati in maniera sublime e acutissima da chi ha col dolore un rapporto intimo, una conoscenza biblica, carnale.
Almodóvar cattura la bellezza che sta nel decadimento
La stanza accanto è l’ultima battaglia di una guerra che chi per lavoro ha visto i conflitti peggiori del pianeta non vuole affrontare in solitudine. Per questo chiede aiuto a una donna straordinaria, che “ha sempre saputo soffrire senza far sentire gli altri in colpa”. Nei suoi ultimi giorni di relativo benessere Martha riflette su tutto, a partire dalla sua maternità sofferta, messa da parte per inseguire la carriera, turbata dall’assenza di un padre che ha generato infinito astio nella figlia. La maternità è un altro argomento che sta infinitamente a cuore al regista (vedi Madres Parallelas), un rapporto che è una guerra che da narratore e cineasta sa benissimo giocare su entrambi i fronti: delle madri e dei figli. Quando Ingrid avrà a che fare con la figlia di Martha, assisterete a un colpo di mano che solo uno col passato e la sfrontatezza di Almodóvar può sperare di giocarsi impunemente.
Non è solo Martha a morire: c’è chi muore in vita perché vive il suo medesimo inaridimento di passioni e interessi (d’altronde anche la vecchiaia è un lento morire), c’è persino il pianeta che rantola, strozzato dal cambiamento climatico. Un cataclima pronto ad abbattersi, capace però di donare inaspettati lati positivi: una neve rosa zucchero filato che cade su New York, quasi irreale. Una scena da tenere a mente, considerando la citazione di Gente di dublino che ricorre nel film, la valenza che assume la neve che cade. La morte è ovunque: nel tempo che passa, nel mondo strozzato dal clima, nella malattia che corrode i corpi. Alle volte però la consapevolezza di questa mortalità che tocca ogni cosa permette di mettere a fuoco la bellezza che sta nella distruzione e goderne, come fosse un pezzo d’arte.