Con Le Deuxième Acte il cinema s’interroga sulle nevrosi del suo presente, tra intelligenze artificiali e sale vuote

Quentin Dupieux apre la 77esima edizione del Festival di Cannes con un film che fotografa le nevrosi del cinema contemporaneo e i timori per il futuro.

di Elisa Giudici

Ci sarebbe da piangersi addosso, ma per fortuna a contemplare il desolante stato di salute mentale ed economica del cinema contemporaneo c’è Quentin Dupieux. Il Festival di Cannes ha voluto il suo nuovo film per aprire l’edizione 2024. Una scelta coerente: quello di Dupieux è un nome affermato del panorama francese, un cineasta molto prolifico, ma di recente restio ad impegnarsi davvero.

Per chi non frequenta il cinema francese: immaginate un Steven Soderbergh capace di attrarre le nuove promesse del cinema francese e i suoi mostri sacri, tornando sempre a un pugno di attori feticcio, ma buttateci dentro un po’ dell’ironia e del manierismo del tardo Wes Anderson. Mescolate accuratamente, aggiungete una robusta dose di freddure all’inglese, momenti surreali e battute nonsense, rimanete sempre sotto i 90 minuti di durata e avrete un’idea abbastanza precisa di cosa sia il cinema di Dupieux.

Uno che arriva sul red carpet inaugurale con l'aria di chi ci capita per caso, che però è circondato da una bella fetta del gotha del cinema francese: l’icona internazionale ed ex Bond girl Léa Seydoux, l’inossidabile Vincent Lindon, il talentuoso e popolarissimo Louis Garrel e l’ultimo attore consacrato dai César, grande promessa di questi lidi: Raphaël Quenard.

Come Dupieux riesca a convincere nomi di questa levatura a prestarsi ai suoi divertissement è un mistero intrigante che nessuno sembra ancora aver risolto. A meno di trascurare il tipo di ruolo anticonvenzionale che ogni suo film regala al cast.

Non ci resta che ridere in questa notte del cinema

Le Deuxième Acte ha gli stessi limiti e pregi del recente cinema di Dupieux, riassumibili in: “il ragazzo è intelligente, ma si applica fino a un certo punto”. A voler vedere forse una pianificazione maggiore di quella del regista stesso, questo film con i due precedenti Yannick e Daaaaaalí! forma una sorta di trilogia di meditazione sull’arte e la creatività. Yannick parla dello snobbismo del mondo culturale e del distacco dai suoi fruitori, Daaaaaalí! della creatività che piega la logica lineare della vita e della realtà. La stessa cosa che succede in Le Deuxième Acte, che è il film perfetto per aprire Cannes, dato che parla di cinema facendo meta-cinema e riflette sullo stato di salute dell'industria con ironia, mentre si è sul set a girare il solito film dentro il film.

I quattro protagonisti sono attori impegnati sul set di una commedia romantica non troppo brillante. Dupieux è uno scrittore capace, ficcante. Si muove con grande agio dalla trama del film che si sta girando a quella della pellicola che stiamo vedendo, facendoci sbirciare nella vita professionale e personale dei suoi interpreti. C’è chi è tronfio per aver finalmente ricevuto la chiamata di Hollywood, chi è attento al millesimo al politically correct, chi vorrebbe sfilarsi dal progetto senza ripecussioni.

Dopo il primo sfondamento di quarta parete a seguito di un commento transfobico (”Non puoi dire una cosa di questo tipo, stiamo girando!” dice Garrel indicando la cinepresa davanti a sé e noi che in sala assistiamo allo spettacolo) è un continuo scivolare tra tre piani. C'è il film nel film, il dietro le quinte dello stesso che fa da cornice narrativa e, ai margini, una riflessione sui tormenti e i timori di chi il cinema lo fa. La spasmodica attenzione a evitare di essere cancellati, le lusinghe del cinema in lingua inglese, le sale semi vuote, l’irrilevanza del cinema nella vita (culturale) del pubblico e, ovviamente, l’intelligenza artificiale.

Dupieux ricorre dunque all’artificio narrativo più rilevante di questo momento, più usato ed abusato: la meta-cornice narrativa, il raccontare una cosa e insieme fare da commentario esplicito alla stessa. Un po’ critica, un po’ meme all'insegna della distaccata consapevolezza di sé. Da sceneggiatore di razza qual è, Dupieux lo fa in maniera brillante, quasi mai irritante. Il continuo saltare consapevole e insistito tra scene del film e dialoghi tra attori dietro le quinte senza tagli, senza interruzioni permette poi ai quattro protagonisti di mettere in mostra la propria bravura. Sono tutti molto in gamba, ma Vincent Lindon si mangia la scena.

Le macerie della quarta parete 

Anche a livello registico il film punta a rendere iper vigile il suo pubblico, insistendo ed esasperando così tanto alcuni artifici narrativi da renderli evidenti, parodici. La pellicola si apre con due carrellate infinite, senza pausare o tagli, di minuti e minuti. Una da sinistra verso destra, l’altra da destra verso sinistra. Nel mezzo c’è il bizzarro locale che dà il nome al titolo, dove si consuma la trama abbozzata della surreale commedia romantica che si sta girando.

Rispetto a altri film di Dupieux, questo è volutamente pettinato, anche esteticamente: bellissime giacche e morbidi piumini per i protagonisti, la bruma e le nebbie della campagna francese. Nella seconda metà il lungometraggio convince meno, si “siede”, trova una via per chiudere il tutto che è meno soddisfacente dell'avvio e dello svolgimento. L’attenzione di Dupieux forse è rivolta già altrove. Peccato, perché quando viene introdotto il tema dell’intelligenza artificiale, il film comincia finalmente a essere più di un gioco. Dupieux però ha solo voglia di divertirsi, almeno per ora.