Lo Hobbit: La Battaglia delle Cinque Armate

di Marco Modugno
“Noi siamo gente tranquilla e alla buona e non sappiamo che farcene delle avventure. Son cose brutte, fastidiose e scomode! Fanno far tardi a cena! Non riesco a capire cosa ci si trovi di bello!”. Se l'hobbit Bilbo Baggins avesse tenuto fede a questa massima di vita, tratta direttamente dal primo delizioso romanzo del professor John Ronald Reuel Tolkien, linguista di Oxford, inglese nato in Sud Africa, cattolico convinto, con la passione per l'epica e per le lingue nordiche, il mondo, e con questo intendo dire quello reale in cui viviamo, sarebbe diverso. Se Tolkien non avesse dato un seguito alla prima fatidica frase (“In un buco del terreno viveva uno hobbit”), vergata distrattamente a margine di un compito in classe durante un pomeriggio di lavoro qualsiasi.



Se non avesse scritto di getto una storia semplice ma accattivante, destinata a un pubblico di giovani lettori ma capace di entusiasmare milioni di adulti, germe narrativo scaturito dalla radice profonda del Quenta Silmarillion con il quale intendeva regalare al mondo anglosassone un'epica, seppur fantastica, della quale era privo, che ne sarebbe stato della letteratura fantasy? Per non parlare del mondo del gioco di ruolo, da tavolo o digitale e della cinematografia fantastica degli ultimi trent'anni. Senza quel primo fatidico passo fuori della verde porta rotonda di casa Baggins, con ogni probabilità, il genere letterario fantastico sarebbe rimasto ancorato alla polverosa saga arturiana o al massimo allo sword & sorcery di inizio Novecento, genere per forza di cose di nicchia, creato da Howard e dai suoi epigoni, e il fenomeno Dungeons & Dragons non sarebbe esistito. Perfino la saga di Guerre Stellari, nel concepire la quale Lucas ha più volte dichiarato di aver tratto ispirazione dalle opere tolkieniane, sarebbe stato qualcosa di decisamente diverso.

Per fortuna, le cose sono andate come sappiamo ed eccoci qui, allora, intenti a commentare a caldo la visione dell'ultimo capitolo cinematografico della trilogia di Peter Jackson ispirata alla prima opera di Tolkien. Fin dall'uscita del primo film su Lo Hobbit, due anni fa, si é dibattuto a lungo sull'opportunità di “stiracchiare” una storia di nemmeno duecento pagine, trasformandola in ben tre grandi film densi di epica, azione, intrecci di trama. Tentativo reso possibile solo grazie allo sfruttamento massivo delle Appendici del Il Signore degli Anelli e di molto del materiale raccolto da Chistopher Tolkien e pubblicato spesso solo in lingua inglese, che riportava risvolti e retroscena delle vicende dei romanzi. E dell'adozione di numerose licenze artistiche da parte del regista, come già nella realizzazione della trilogia de Il Signore degli Anelli, che tuttavia non snaturano affatto, se non in pochi e tutto sommato marginali elementi, lo spirito delle storie originali.



Meglio chiarire allora, una volta per tutte, che un film costituisce necessariamente un'opera d'arte a se stante, anche quando viene tratto da un libro, e che é quindi un po'da zeloti, secondo me, pretendere un'aderenza pedissequa della pellicola al romanzo. Molto meglio affidarsi all'estro del regista, pretendendo nel contempo però che l'idea originale non ne sia snaturata.

Per capire se tale premessa é stata mantenuta, faremo bene, dopo questo lungo incipit, ad interessarci al film. La Battaglia dei Cinque Eserciti (mi rifiuto di associarmi alla pochezza del traduttore italiano, che ha reso letteralmente “armies” in “armate”, nemmeno stesse parlando di una partita di Risiko; tanto di cappello alla Bompiani che invece, pubblicando i libri fotografici del film, in copertina é voluta rimanere fedele alla traduzione originale) é un film da non perdere.

Piacerà, io credo, a quasi tutti. Ai tolkieniani appassionati come il sottoscritto, che pensando di conoscere un po', ormai, il modo di pensare del professore attraverso non solo le sue opere, ma anche qualche quintale di saggi e biografie, apprezzeranno anche le digressioni jacksoniane più audaci, mai in contrasto assoluto con quel gusto dell'eroismo epico e della narrazione di ampio respiro, senza mai perdere di vista un profondo interesse per le vicende della gente semplice e un senso dell'umorismo garbato e mai grossolano. Ma anche ai neofiti, che di anelli del potere e genealogie naniche ed elfiche masticano poco, incantati però da scene d'azione inarrivabili, scontri singoli o di massa coreografati come balletti impeccabili, riprese paesaggistiche mozzafiato e l'uso sapiente di un 3D mai invasivo o disturbante, ma decisamente utile a regalare ancor più profondità agli scenari.



Piacerà a chi, jacksoniano della prima ora, apparecchia fin dall'ormai lontano 2001 un posto a tavola in più, alle feste comandate, nella speranza che il regista neozelandese abbia deciso proprio quel giorno di accettare un invito a cena offerto sull'onda della gratitudine verso chi finalmente ha dato un volto indimenticabile ai personaggi delle saghe tolkieniane. E a chi invece si accontenta di andare a vedere il film così com'é, senza preconcetti o aspettative, a parte la sacrosanta pretesa di rimanere aggrappato alla poltrona per più di due ore senza nemmeno uno sbadiglio, uscendo divertito e appagato dalla sala, con un bel sorriso sulla faccia.

Sceneggiato e girato dal principio alla fine come un unico ininterrotto gran finale della storia, come ha giustamente osservato un amico incontrato alla prima, il terzo capitolo de Lo Hobbit riprende a raccontare la storia esattamente là dove l'avevamo lasciata, alla fine de La desolazione di Smaug. Ci é un po' mancato l'abituale flash-back iniziale inserito di solito da PJ all'inizio delle sue pellicole, ma é comprensibile che l'aver chiuso il film precedente con un drago sputa fuoco che plana, attapirato come un marsupiale idrofobo, verso una città costruita in legno nel bel mezzo di un lago gelido, non lasciasse molto spazio alle digressioni. Il pubblico, che abbia letto o meno il libro e ne conosca la trama, vuole sapere subito cosa ne sarà della gente di Esgaroth.

Chiunque, giocatori di ruolo oppure no, nutrisse ancora dei dubbi su cosa é capace di fare un drago quando é arrabbiato, potrà toglierseli definitivamente nei primi venti minuti del film, durante i quali Smaug pazza via l'esile ricordo del lucertolone dagli occhi languidi di Dragonheart e della dragonessa piaciona dell'agghiacciante Eragon con un solo battito delle sue possenti ali. Conclusa la battaglia, non c'é tempo per riposare. Lo scontro con Smaug, che aveva rappresentato fin dall'inizio il culmine apparente della vicenda, in realtà non é altro che il prologo di un confronto definitivo con un nemico antico, ancor più micidiale. Gli eserciti citati nel titolo si radunano, si fronteggiano e alla fine si combattono in una serie di scontri che non fa rimpiangere, per livello di epicità, la battaglia del Fosso di Helm e quella dei Campi di Pelennor della prima trilogia.



La guerra totale, senza quartiere, é preceduta dalla battaglia delle coscienze, dallo scontro di emozioni durante il quale i protagonisti sono chiamati, ciascuno per la sua parte, a superare le differenze e le divisioni ataviche, pur di fare fronte comune contro un avversario che approfitterebbe volentieri di ogni loro discordia. La battaglia delle coscienze precede quella degli eserciti, dunque. E Jackson, maestro delle scene di massa e dei paesaggi, si cimenta senza affanni con il dramma psicologico di Thorin, afflitto dal “morbo del drago” al punto da rischiare di venir meno alla sua parola, con la struggente storia di Tauriel e Kili, dal lieto fine impossibile, con il dilemma di Thranduil, che può conservare la corona o la fedeltà di suo figlio Legolas, ma non entrambi, con il riscatto di Bard, il contrabbandiere di nobile retaggio che si fa re attraverso il suo coraggio e l'amore per la sua famiglia e la sua gente.

Elfi, nani, uomini del lago, orchi, aquile. Ciascun esercito ha i suoi condottieri, le sue armi, il suo modo particolare di combattere, il suo carattere. Dopo un'indimenticabile apparizione di Cate Blanchett - Galadriel, Hugo Weaving - Elrond e dell'inossidabile Christopher Lee - Saruman nel primo tempo, nel secondo conosciamo finalmente Dàin Piedediferro, signore nanico dei Colli Ferrosi, cugino di Thorin e quintessenza del nano guerriero da Warhammer in poi, con tanto di cinghiale da guerra, mohicana da ammazza troll con tatuaggi e martello magico spacca crani. Perfetto contrasto con l'algido Thranduil, spadaccino elegante ed imperturbabile.

Alla fine, tutto é compiuto. La vittoria, strappata in extremis non senza pagare un prezzo elevato, é raggiunta e un altro scampolo di pace conquistato. Bilbo può dire addio ai nani, cui sarà legato per sempre da un ricordo affettuoso. E accomiatarsi in silenzio, senza fasti, per tornare a casa, ai suoi libri e alla sua vita. Fino all'epilogo che riprende la prima indimenticabile scena de La Compagnia dell'Anello, regalando un altro cameo a sir Ian Holm e chiudendo definitivamente il ciclo. Nuvole di tempesta si addenseranno di qui a qualche anno, lo sappiamo, sulla Terra di Mezzo. Ma questa, come scriverebbe qualcuno, é un'altra storia (già raccontata)...