Lone Survivor
di
Pashtunwali, la via dei Pashtun. Per capire perché gli abitanti di un villaggio afghano siano disposti a farsi distruggere le case e ammazzare e pur di non consegnare un militare americano ad una banda agguerrita di talebani, occorre comprendere almeno qualcosa dell'antico codice d'onore preislamico dei montanari Pashtun. I suoi precetti, semplici, impegnativi e inderogabili, mettono l'ospite, perfino se appartenente ad una fazione nemica, sotto la tutela di chi lo accoglie. Con l'obbligo di dargli asilo, cura, custodia e protezione contro chi voglia aggredirlo, a qualsiasi costo. I sacri principi della “melmastia” (ospitalità) e "nanawatay" (asilo) diventano così un imperativo assoluto che scavalca qualsiasi altro precetto, perfino il Corano.
Se si volesse distillare in due parole il messaggio contenuto nell'ultima fatica del regista Peter Berg, basterebbero queste: tenacia e pashtunwali. La prima la esprimono, al di là di ogni immaginabile limite umano, i quattro componenti del SEAL Team 10 coinvolti nell'Operazione Red Wings, aggrediti da un numero preponderante di nemici, braccati, decimati, ridotti allo stremo ma sempre pronti a reagire con una caparbietà che, se non può prescindere da un addestramento fisico estremo di prim'ordine, trova le sue radici e la sua giustificazione nella testa di quei quattro guerrieri fuori dal comune, capaci di un'autodisciplina che lascia più volte a bocca aperta ma che chi ha frequentato l'ambiente degli operatori delle forze speciali sa essere assolutamente autentica. La seconda, invece, é radicata profondamente in Mohammad Gulab e nei suoi concittadini, al punto da convincerli a rischiare la vita per accogliere un nemico, membro di un esercito occupante, e per difenderlo ad ogni costo dai suoi inseguitori.
Siamo lontani mille miglia dal cinema trionfalistico degli anni Ottanta e Novanta, dalla Delta Force di Chuck Norris e dall'Aquila d'Acciaio di Lou Gosset Jr. Piuttosto, Lone Survivor é figlio di una scuola più critica, introspettiva, quella di Blackhawk Down di Scott e del Soldato Ryan di Spielberg, poco inclini a nascondere i lati meno nobili e avventurosi dei conflitti, e mai restii a prendere atto delle sconfitte americane sul campo, a costo di apparire a volte eccessivamente vittimisti (la battaglia di Mogadishu-Backhara documentata nel film di Ridley Scott fu, alla luce dei risultati sul campo, una discreta vittoria tattica degli americani e non una sconfitta rovinosa come raccontato nella pellicola, a dispetto della maldestria tattica che portò alla perdita di due UH-60 e alla morte di una ventina di militari, contro le parecchie centinaia di insorti somali, e alla mancata cattura del generale Aidid). Anche i SEAL del titolo, presentati mentre scorrono i titoli di testa con filmati di repertorio che documentano il loro terribile addestramento, non sono davvero quelli quasi invincibili e decisamente stereotipati dell'omonimo film di Lewis Teague del 1990.
I giovani e barbuti incursori subacquei protagonisti del film, tratto dal bellissimo e omonimo romanzo di Mark Luttrell, unico superstite (di qui il titolo) della squadra, sono persone normali nella loro straordinarietà. Amano, fanno progetti, chattano con le mogli su internet, scherzano, gareggiano fra oro in un piccolo spaccato di vita da campo che risulta utile più tardi, quando la concitazione dell'azione, le barbe fatte crescere per confondersi almeno a distanza con i musulmani autoctoni e le divise mimetiche una simile all'altra renderebbero difficile distinguerli, se non fosse per i diversi caratteri magistralmente interpretati dagli attori, tutti molto bravi. Nessuno di loro ha l'aspetto dell'attore hollywoodiano tutto spiaggia e palestra (nemmeno Mark Wahlberg che sembra un po' bolso per essere un SEAL, salvo scoprire dalle foto che scorrono sullo sfondo dei titoli di coda che per girare questo film é riuscito a diventare il gemello monozigote del vero Luttrell), fatta eccezione per la recluta Patton, che non avrà nemmeno il tempo di mettere piede a terra per iniziare la sua prima missione operativa.
Bastano pochi minuti di introduzione, però, e si comincia a conoscere quei ragazzi, a scoprire che si tratta di esseri umani, per quanto motivati e ben addestrati, con gli stessi problemi di chiunque altro. Li si apprezza, e proprio per questo non ci si sorprende più di tanto quando la decisione tattica allo stesso tempo più stupida e più umana li scaraventa dritti nelle braccia di un nemico agguerrito, implacabile, indomito. Si soffre con loro, per tutta la durata del film. Completamente assenti, invece, i personaggi femminili. Sarebbero stati fuori contesto, grazie a Dio, nel truculento e adrenalinico scontro che imperversa per la quasi totalità delle due ore di proiezione. Il che non vuol dire che il film non possa piacere a mogli e fidanzate, pacifiste o meno. Poca retorica, molta sostanza e tanta umana sofferenza rendono infatti il film apprezzabile per tutti, fatta eccezione per i giovanissimi e chi é debole di stomaco, o di nervi.
Lone Survivor infatti, più ancora del già citato Blackhawk Down, é un pugno nello stomaco. Colpa probabilmente di una camera che adora i campi stretti, i primi piani sui volti sudati e insanguinati, le moviole intrise di spruzzi ematici in sospensione, di polvere, di proiettili. Lo strazio comincia subito, quando ancora la squadra é in partita, intenta a sorvegliare il capo talebano Ahmad Shah, crudele aguzzino della sua stessa gente (chi crede che i talebani visti nel film siano stereotipi, lo vada a dire alle donne afghane dei villaggi Pashtun infibulate a forza o lapidate per il minimo sgarro, o agli uomini cui viene amputato il pollice della destra se solo sono sorpresi a fumare una sigaretta in strada in violazione di chissà quale norma coranica). Lo spettatore che, come me, ha sbirciato trailer, recensioni o materiale stampa, sa già come andrà a finire. Nomen omen, comunque, il titolo non é certo un presagio di successo e vittoria. Ma illogicamente spera che quei quattro ce la facciano a tornare dalle loro mogli o fidanzate, ai loro progetti di vita. Rambo ce l'ha fatta quattro volte, dannazione, perché loro no?
Se si volesse distillare in due parole il messaggio contenuto nell'ultima fatica del regista Peter Berg, basterebbero queste: tenacia e pashtunwali. La prima la esprimono, al di là di ogni immaginabile limite umano, i quattro componenti del SEAL Team 10 coinvolti nell'Operazione Red Wings, aggrediti da un numero preponderante di nemici, braccati, decimati, ridotti allo stremo ma sempre pronti a reagire con una caparbietà che, se non può prescindere da un addestramento fisico estremo di prim'ordine, trova le sue radici e la sua giustificazione nella testa di quei quattro guerrieri fuori dal comune, capaci di un'autodisciplina che lascia più volte a bocca aperta ma che chi ha frequentato l'ambiente degli operatori delle forze speciali sa essere assolutamente autentica. La seconda, invece, é radicata profondamente in Mohammad Gulab e nei suoi concittadini, al punto da convincerli a rischiare la vita per accogliere un nemico, membro di un esercito occupante, e per difenderlo ad ogni costo dai suoi inseguitori.
Siamo lontani mille miglia dal cinema trionfalistico degli anni Ottanta e Novanta, dalla Delta Force di Chuck Norris e dall'Aquila d'Acciaio di Lou Gosset Jr. Piuttosto, Lone Survivor é figlio di una scuola più critica, introspettiva, quella di Blackhawk Down di Scott e del Soldato Ryan di Spielberg, poco inclini a nascondere i lati meno nobili e avventurosi dei conflitti, e mai restii a prendere atto delle sconfitte americane sul campo, a costo di apparire a volte eccessivamente vittimisti (la battaglia di Mogadishu-Backhara documentata nel film di Ridley Scott fu, alla luce dei risultati sul campo, una discreta vittoria tattica degli americani e non una sconfitta rovinosa come raccontato nella pellicola, a dispetto della maldestria tattica che portò alla perdita di due UH-60 e alla morte di una ventina di militari, contro le parecchie centinaia di insorti somali, e alla mancata cattura del generale Aidid). Anche i SEAL del titolo, presentati mentre scorrono i titoli di testa con filmati di repertorio che documentano il loro terribile addestramento, non sono davvero quelli quasi invincibili e decisamente stereotipati dell'omonimo film di Lewis Teague del 1990.
I giovani e barbuti incursori subacquei protagonisti del film, tratto dal bellissimo e omonimo romanzo di Mark Luttrell, unico superstite (di qui il titolo) della squadra, sono persone normali nella loro straordinarietà. Amano, fanno progetti, chattano con le mogli su internet, scherzano, gareggiano fra oro in un piccolo spaccato di vita da campo che risulta utile più tardi, quando la concitazione dell'azione, le barbe fatte crescere per confondersi almeno a distanza con i musulmani autoctoni e le divise mimetiche una simile all'altra renderebbero difficile distinguerli, se non fosse per i diversi caratteri magistralmente interpretati dagli attori, tutti molto bravi. Nessuno di loro ha l'aspetto dell'attore hollywoodiano tutto spiaggia e palestra (nemmeno Mark Wahlberg che sembra un po' bolso per essere un SEAL, salvo scoprire dalle foto che scorrono sullo sfondo dei titoli di coda che per girare questo film é riuscito a diventare il gemello monozigote del vero Luttrell), fatta eccezione per la recluta Patton, che non avrà nemmeno il tempo di mettere piede a terra per iniziare la sua prima missione operativa.
Bastano pochi minuti di introduzione, però, e si comincia a conoscere quei ragazzi, a scoprire che si tratta di esseri umani, per quanto motivati e ben addestrati, con gli stessi problemi di chiunque altro. Li si apprezza, e proprio per questo non ci si sorprende più di tanto quando la decisione tattica allo stesso tempo più stupida e più umana li scaraventa dritti nelle braccia di un nemico agguerrito, implacabile, indomito. Si soffre con loro, per tutta la durata del film. Completamente assenti, invece, i personaggi femminili. Sarebbero stati fuori contesto, grazie a Dio, nel truculento e adrenalinico scontro che imperversa per la quasi totalità delle due ore di proiezione. Il che non vuol dire che il film non possa piacere a mogli e fidanzate, pacifiste o meno. Poca retorica, molta sostanza e tanta umana sofferenza rendono infatti il film apprezzabile per tutti, fatta eccezione per i giovanissimi e chi é debole di stomaco, o di nervi.
Lone Survivor infatti, più ancora del già citato Blackhawk Down, é un pugno nello stomaco. Colpa probabilmente di una camera che adora i campi stretti, i primi piani sui volti sudati e insanguinati, le moviole intrise di spruzzi ematici in sospensione, di polvere, di proiettili. Lo strazio comincia subito, quando ancora la squadra é in partita, intenta a sorvegliare il capo talebano Ahmad Shah, crudele aguzzino della sua stessa gente (chi crede che i talebani visti nel film siano stereotipi, lo vada a dire alle donne afghane dei villaggi Pashtun infibulate a forza o lapidate per il minimo sgarro, o agli uomini cui viene amputato il pollice della destra se solo sono sorpresi a fumare una sigaretta in strada in violazione di chissà quale norma coranica). Lo spettatore che, come me, ha sbirciato trailer, recensioni o materiale stampa, sa già come andrà a finire. Nomen omen, comunque, il titolo non é certo un presagio di successo e vittoria. Ma illogicamente spera che quei quattro ce la facciano a tornare dalle loro mogli o fidanzate, ai loro progetti di vita. Rambo ce l'ha fatta quattro volte, dannazione, perché loro no?