Macchine mortali
Se c'è un artista cinematografico (da notare la definizione ‘artista’ e non ‘regista’) che si potrebbe parzialmente paragonare alla figura di George Lucas, questo artista è senza dubbio Peter Jackson. Come Lucas, potremo dire che il regista neozelandese, ad un certo punto della sua carriera, abbia ‘abdicato’ alla possibilità di svolgere il ruolo di regista cinematografico puro.
Preferendo addentrarsi in un mondo. Il suo mondo. Lucas con Star Wars, Jackson con Il signore degli Anelli e tutto ciò che riguarda l'universo ideato dalla fantasia di Tolkien.
L'attività di Jackson (come di Lucas) dunque nel corso degli anni ha coperto diverse branche della settima arte, senza che il cineasta (Premio Oscar nel 2004 per Il ritorno del Re) sentisse la necessità di occuparsi direttamente della regia dei ‘suoi’ prodotti.
L'ultimo di questi casi è Macchine mortali diretto dal neozelandese (non a caso) Christian Rivers. Un giovane esponente della ‘Scuderia Jackson’ a cui è stata affidata la trasposizione cinematografica (made in New Zealand) di quello che ormai è un classico della letteratura per teenager: Macchine mortali, appunto dello scrittore Philip Reeve. Il quale ha dedicato quattro libri (e vari prequel) ai suoi personaggi, e siamo certi che da questa trasposizione del primo episodio del racconto (pubblicato nel 2001) partirà una nuova saga ed una nuova occasione di realizzare altre pellicole sul tema. Il mercato lo impone.
In un futuro post-apocalittico (su per giù verso il 3000) la terra è ormai contaminata a causa dei terribili vizi e degli errori degli ‘Antichi’. Ma se la terra trema, le città resistono. Anche se ormai sono perlopiù città volanti o su macchina, che si muovono fagocitandosi a vicenda in nome del mero istinto di sopravvivenza. Le città del nuovo millennio sono appunto Macchine Mortali, e Londra primeggia su tutte. All'interno di questa città caotica e gerarchicamente organizzata in cui ancora è ben visibile la seconda Cupola più grande del mondo (quella di Saint Paul), emergono però i primi vagiti della rivolta.
La giovane Hester Shaw (Hera Hilmar) farà infatti coppia con il giovane storico Tom Natsworthy (Robert Sheehan) per fermare le velleità dell'ingegnere nucleare Thaddeus Valentine (Hugo Weaving), desideroso di prendere il potere della città e distruggere la setta dei trazionisti, che vivono secondo canoni monastici e che non riconoscono il potere che le macchine hanno ormai sull'uomo.
L'intento del racconto scritto è quello di assumere la veste di vera e propria epopea generazionale. Traslato sul fronte cinematografico, Macchine mortali non poteva invece che essere l'ennesimo prodotto hollywoodiano formato famiglia, in cui inseguimenti, effetti speciali ed esplosioni varie la fanno da padrone. Vero. Ma se possibile la scuderia Jackson si allontana il più possibile dagli ineluttabili stereotipi di genere. E cerca di realizzare un prodotto originale, in cui è ben presente la mano e sopratutto lo spirito visionario del realizzatore della saga tolkeniana. In questo tripudio di botte, spari, e corse all'ultimo miglio tra aerei e astronavi infatti è possibile vedere in filigrana un direttore d'orchestra. Jackson, ovviamente.
Ma non solo. Anche quel direttore d'orchestra a cui i registi Powell e Pressburger facevano concludere il film I racconti di Hoffmann, con tanto di timbro finale su carta intestata con scritto a caratteri cubitali ‘Made in UK’: il simbolo dell'orgoglio (nell'allora sistema della quote, che tendeva a favorire attori e maestranze prettamente di cittadinanza britannica) di un cinema che non rinunciava allo spettacolo, ma al tempo stesso desideroso di fornire una maggiore qualità ed un maggior grado di introspezione rispetto alle pellicole a stelle e strisce.
Jackson, è come se si immedesimasse in quel direttore d'orchestra. Urla a tutto spiano che ci sono pure loro, ci sono i neozelandesi. E da cinefilo onnivoro porta il suo mondo fantastico sui grandi schermi di tutto il mondo. Portandogli in dote la visione neozelandese applicata ai blockbuster. Tra set, attori e maestranze dell'isola di Wellington. Il tutto in un tripudio di ironia (i Minions custoditi nel museo di antichità della nuova e modernissima Londra) e tantissime citazioni filmiche.
Dalla Morte Nera di Star Wars (ovviamente), alle divise di Sigourney Weaver in Alien passando per Indiana Jones, una citazione grande come una casa da Il Maratoneta di Schlesinger a tratti il controverso Orizzonte perduto di Frank Capra. Jackson e l'esordiente Rivers non si sono limitati dunque alla realizzazione del solito film, ma hanno portato la loro idea, cercando di rendere il solito film unico nel suo genere. E per questo (come minimo) andrebbero ringraziati.