Maria, dov’è la Diva? Angelina Jolie nei panni della Callas non è sempre all’altezza del suo stesso film

Una Angelina Jolie poco somigliante e spesso in difficoltà non si dimostra sempre all’altezza dello splendido lavoro che il regista Pablo Larraín e lo sceneggiatore Steven Knight le cuciono addosso.

di Elisa Giudici

Maria è il tipico progetto cinematografico che suscita rimpianto durante e nell’immediato dopo visione. Sappiamo come funziona: per mettere in piedi una produzione italotedesca di questo livello, per interessare il mercato internazionale e smuovere nomi come quello del regista cileno Pablo Larraín, serve una presenza di peso, una star nei panni della protagonista. Un nome come quello di Angelina Jolie, che da solo assicura l’evento: Angelina nei panni di Maria, la Jolie che fa la Callas.

In un mondo più giusto il nome che attira l’attenzione dovrebbe essere quello di Pablo Larraín, ormai comprovato autore fuoriclasse, uno che non sbaglia davvero un film da più di un decennio. A Hollywood ci è arrivato con la nomea di riuscire a tirare a dive in cerca di riconoscimento artistico una volata verso gli Oscar. Lo ha fatto per Natalie Portman con Jackie, lo ha fatto con Kristen Stewart con Spencer. Un talento così è ricercato. Peccato che quando gira in lingua inglese lo si ingabbi costantemente in questi ritratti agiografici di figure femminili novecentesche, iconiche nella loro sottile tristezza esistenziale; Jackie Kennedy, Lady Diana e ora Maria Callas. Se i film in questione non sono un completo fallimento è perché è Larraín a metterci quel quid, a trasformarli in qualcosa d’altro, di più alto, di memorabile.

Nella parentesi tra un film statunitense e l’altro ha girato il folle e radicale Ema (il suo primo e per ora unico colpo di testa registico) e l’ardita satira politica El Conde con Netflix, tornando alla sua decennale ossessione per ciò che Pinochet ha fatto al suo Cile. Uno dei migliori film di vampiri e uno dei migliori film sulle dittature politiche e sui loro postumi degli ultimi dieci anni.

Angelina Jolie non è una Maria Callas convincente

Siccome però viviamo in un mondo al contrario, per il pubblico generalista Pablo Larraín rimane uno sconosciuto, mentre il nome importante è quello di Angelina Jolie, diva in cerca di una seconda primavera artistica dopo un periodo lontano dalle scene cinematografiche e sotto i riflettori mediatici per dolorose vicende familiari. Come ampiamente pronosticato alla vigilia, Maria non sfrutta appieno il suo potenziale perché Jolie, per quanto s’impegni, non è mai una Callas credibile, sotto molti aspetti. Il primo è quello mimetico: l’interprete somiglia poco alla soprano fisicamente. Un limite relativo: il cinema richiede una certa dose d’immaginazione allo spettatore. Solo che Jolie non scappa mai davvero neanche dalla sua identità glamour, non diventa non dico persona, ma personaggio. La vediamo su schermo e per tutto il tempo pensiamo “ecco Angelina Jolie”.

Nella pellicola si esplora (in bianco e nero) il passato di Callas, quelle drammatiche corvée vocali (e sessuali) a uso e consumo dei soldati tedeschi nella Grecia in guerra. la Maria del film ha una psicologia da ex grassa ed ex bruttina che “è passata all’altra tribù” (dei belli) ma si porta dietro quell’inestinguibile insicurezza di chi non dà per scontata la propria avvenenza. La divina sempre chic ha bisogno della conferma altrui per essere sicura di essere bella, desiderabile, di avere un corpo oltre a una voce. Jolie questa parte non riesce a incarnarla, a vendercela. Le sue mani affusolate, i suoi occhi espressivi e allungati, il viso a forma di cuore, il fisico snello: si muove come una persona che non ha mai conosciuto la bruttezza in un giorno della sua vita, la cui grazia ultraterrena è uno stato naturale delle cose, da sempre.

Maria racconta l’ultima settimana di vita della soprano, assediata da visioni di uomini morti, dai fantasmi del suo passato infelice e dallo spettro di un ritorno sulle scene. In auto-esilio nella sua casa parigina, assistita dai servitori fedeli come segugi Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e Bruna (Alba Rorhwacher), la primadonna assoluta diluisce nei barbiturici e nelle glorie del passato il lutto mai superato per la morte di Aristotele Onassis, un bruto “brutto e morto”. C’è un’altra morte da piangere: la perdita mai accettata dall’artista della sua voce miracolosa.

Larraín e Knight sono gli eroi nell'ombra di Maria

Il film si apre con una sequenza di cui capiremo il significato solo in chiusura di pellicola, che adotta uno svolgimento circolare sempre più di moda negli ultimi anni. Vediamo una stanza con polizia, medici, una barella e i personaggi comprimari che riconosceremo solo quando torneremo a fine film nello stesso luogo, armati di due ore di storia con cui rileggere il tutto. La cinepresa varca lentamente la soglia della porta del salone dove si assiepano i personaggi,l’angolo dell’inquadratura lievemente dal basso verso l’alto, lo zoom lentissimo, prolungato. L’operatore di cinepresa (Larraín stesso) dimostra un tocco lieve, una maestria nell’ammantare di grande eleganza una scena che viene presentata come amena ma che è l’inizio e la fine dell’ultimo atto della diva.

Dimostra la stessa maestria lo sceneggiatore Steven Knight, che per Larraín aveva scritto già Spencer, la biografia su Lady D. C’è nell’avventura del regista cileno a Hollywood questa nervatura di dolore radicato, di fasti perduti. Larraín racconta donne di fama mondiale il cui periodo d’oro e finito, che si aggirano tra le rovine lussuose della propria vita, facendo i conti con la morte. Dal canto suo, Knight è uno che o indovina alla grande il film e il suo tono o lo sbaglia completamente, senza mezze misure. Spencer non funzionava anche perché la sua sceneggiatura - una sorta di rilettura emozionale e alternativa della Diana alle soglie del divorzio - non era né suggestiva né efficace. Era quasi una fantasia consolatoria per i fan della principessa triste.

Maria invece ce lo riconsegna in grande forma: è un susseguirsi infinito di grandi passaggi di dialogo, di verità esistenziali calate nel quotidiano di una persona straordinaria. Il genere di frasi che nessuno dice nella vita vera (almeno non a questo ritmo), ma che sentite al cinema, interpretate da un buon attore, sembrano credibili e ti viene voglia di appuntartele per rubarle più tardi Frasi come “il pubblico si aspetta miracoli, io non faccio più miracoli”, “per noi greci la morte è una compagna di vita sempre vicina”, “tu ogni giorno mi salvi la vita e per questo motivo io ti odio Ferruccio” o all’uomo che le ha appena chiesto di essere la sua amante “essere un oggetto posseduto in una vetrinetta non è la mia ambizione”.

Maria è"solo" un buon film, ma aveva tutti i nomi giusti per essere molto di più

Il limite di Maria sta tutto qui: Angelina Jolie spesso non è in grado di rendere queste frasi studiatamente ricercate naturali, credibili. Sentiamo il suo sforzo nelle scene in cui piange, in cui urla, in cui si dispera. Nella prima parte del film è palesemente in difficoltà, mentre poi sembra prenderci la mano e, a tratti, affascina. Da qui a credere davvero che con un’altra interprete - più somigliante, più suggestiva, più smaliziata nel gestire certe scene drammatiche, certe visioni operistiche, certi momenti ricchi di pathos - il film non avrebbe spiccato il volo ce ne passa. Ci vuole più sospensione d'incredubilità a credere che Jolie sia il nome giusto per il ruolo che a credere al suo ritratto della Callas.

Callas è un miracolo mancato, perché buona parte dei presenti potrebbe renderlo un grande film. Larraín spinge la protagonista in una dimensione in cui visioni figlie dei barbiturici e realtà s’intrecciano. È la tragedia di un interprete graffiante come Haluk Bilginer (Winter Sleep) nei panni di Onassis o di un giovane che già si muove come un veterano Kodi Smit-McPhee nei panni dell’ennesimo giornalista larraíniano che danno solidità alla performance della collega protagonista.

È la tragedia del direttore della fotografia Edward Lachman, che dopo lo strepitoso bianco e nero di El Conde torna con una lavoro tutto giocato su bagliori dorati, blu carichi, ombre calde. Anche Pierfrancesco Favino e Alba Rorhwacher nei panni dei servitori della diva leali come levrieri, intrappolati in una logica quasi di dominazione-sottomissione dai capricci di lei se la cavano, portano a casa battute altrimenti imbarazzanti.