Maxxxine ci ricorda che un'altra Hollywood - sexy, violenta, originale e nerissima - è possibile: la recensione del film

La trilogia horror di Ti West si chiude nella Hollywood Babilonia degli anni ‘80, tra satanismo, slasher e sette religiose: a brillare però è ancora una volta una Mia Goth sinistra.

di Elisa Giudici

Maxxxine è un punto di arrivo per la premiata ditta horror Ti West/Mia Goth, che certifica la tanta strada fatta in appena due anni e tre film. Una trilogia assolutamente originale in un’epoca di franchise, partita con un progetto che con uno sguardo “alto” si delizia a replicare e omaggiare il “basso” del cinema horror, slasher in particolare. Dalla nicchia alla prestigiosa egida di A24, la popolarità acquisita ha permesso al regista di togliersi parecchi sfizi produttivi e in fase di casting.

Si parte con un Kevin Bacon nei panni di un investigatore privato perverso e deliziosamente perfido, passando per il duo Bobby Cannavale e Michelle Monaghan in quelli di due “braccia armate della legge” così vicine allo stereotipo filmico che uno dei due ha una carriera fallita da attore alle spalle. In un film popolato da donne volitive e spregiudicate tutte attorno a Maxine, spicca Elizabeth Debicki nei panni di una versione dalla forte vibrazione lesbica di una regista più dura dell’acciaio, a la Katherine Bigelow.

Quanta strada hanno fatto Ti West e Mia Goth

Nel 2022 X seguivano Mia Goth sul set di un filmino pornografico autoprodotto ambientato in una fattoria che si trasforma in una nuova Texas Chain Saw Massacre. L’anziana assassina di quel film era la giovane protagonista del succressivo Pearl, che vira la Dorothy di Oz in chiave psicotica e assassina.

I riferimenti cinematografici - sia come generi, sia come specifiche pellicole - hanno sempre popolato l’immaginario di questa trilogia. horror, basata sull’amore tarantiniano di West per un certo genere di horror scult e pulp. Le sue ambizioni sono elevate dalla volontà di una musa di votarsi al genere quasi estinto dello psicothriller, mostrandosi al contempo monolitica scream queen e camaleontica performer di donne irrequiete. Mia Goth si può ben intestare il 50% (e forse più) della riuscita dell’operazione.

La trilogia di X prende a piene mani dal cinema horror, ma dopo Pearl ecco il ribaltone: la realtà pesca a piene mani dal cinema. In Pearl la protagonista, nel pieno di un delirio illusorio, urla disperata “I am a star!” prima di venire scartata a un provino che era la sua unica possibilità di sfondare. Mia Goth, fino ad allora ottimo inserto delle seconde e terze file di horror con protagoniste altre star (vedi per esempio Suspiria di Luca Guadagnino o High Life di Claire Denis) lo è diventata davvero, una star.

Vedendo Maxxxine non è difficile capire il perché. Ancora una volta il film ha per combustibile l’energia ruvida, violenta, sinistra della sua performance. Maxine Minx è la naturale evoluzione delle protagoniste delle due pellicole precedenti. In lei l’innocenza della vittima perseguitata da un maniaco omicida si fonde a certe ombre sinistre di una donna usa alla violenza estrema, che non è difficile immaginare dall’altra parte del campo, non come cacciata ma come cacciatrice.

In un’era priva di erotismo, ancora una volta West mette al centro il sesso e la pornografia. Maxxxine infatti racconta il tentativo molto complicato di una star del cinema porno di scalare la collina di Hollywood, diventando una star filmica vera e propria. Un tentativo che nel finale la porta, letteralmente, sulla collina con la grande scritta bianca, inseguita da un pazzo assassino che l'ha presa di mira. Il punto di partenza nel cinema popolare è un horror gore intitolato “The Puritan II”. Robaccia da VHS, in teoria, se non fosse che è diretto dalla regista donna che non scende a compromessi di cui sopra, che come De Palma negli anni ‘80 si oppone agli studios che non vogliono una pornoattrice nel loro film.

Maxxxine guarda più a De Palma che a Psycho

Brian De Palma è il vero nume tutelare di questo film, che ha il grande merito di portarci negli anni ‘80 filmici e cronachistici che una certa nostalgia pop tenta costantemente di cancellare. Quelli in cui l’industria cinematografica sfrutta i corpi delle donne, massacrati da killer come il Night Staker, scaricando addosso a queste stesse icone la colpa della violenza che subiscono. I videonoleggi strabordano di videocassette hard, mentre un’ondata di psicosi contro il satanismo da puritanesimo di ritorno si fa in un attimo setta religiosa. 

Incurante del clima puritano attuale, Maxxxine si rotola deliziato negli stilemi dello psicothriller sessuale da cassetta. Il suo momento migliore è quello in cui Maxxxine, più che in grado di salvare sé stessa (vedi cosa succede al primo maniaco vestito da Buster Keaton che incrocia la sua strada), se ne lava le mani dal salvare la prossima ragazza in difficoltà.

Le due case sulla collina di Maxxxine

In una sequenza del film la protagonista si rifugia nella casa dove venne girato Psycho per sfuggire all'investigatore privato che la sta braccando. Di questo set iconico però viene evidenziata la natura finta, di carta pesta, la mancanza di quell'alone sinistro che il tocco del maestro Hitchcock ha creato. West rifiuta l'elegante e l'elevato, preferendo il finto cinematografico: la testa di gesso di Maxxine, l'interno finto della casa di Psycho, il sangue finto che anticipa quello vero sul collo di un'attrice.

Ci sono due case sulla collina in questo film, entrambe parte della narrazione mitologica di Hollywood. Quella sinistra di Psycho si rivela finta, ma finisce per offrire riparo e protezione. Quella vera invece, fantomatica location di feste di produttori all'ombra della grande scritta Hollywood, si rivela tanto reale quanto ricolma di orrori che trasudano da videocassette, valigie, piscine. 

Come accadeva anche in X, è più affascinante il discorso teorico che West imbastisce dietro la cinepresa più che l’attuazione pratica davanti allo stesso. Nella risoluzione del thriller e nel disvelamento della sua identità dell’assassino, Maxxxine spiazza più che altro per la scelta elementare, semplice, diretta che fa, antitetica a quel colpo di mano che ci aspetteremmo. Potrebbe essere apprezzabile, anche se sa un po’ di soluzione di comodo. Meno giustificabile invece è il modo affrettato con cui gestisce l’inevitabile carneficina finale, abbozzata nei modi, sincopata nel ritmo.

Come parola fine (sperando sia tale) a questa trilogia però Maxxxine è all’altezza del viaggio fatto, regaladoci un assaggio di quella babilonia nera che Hollywood incarna a più riprese e che attrae così tanti registi (vedi Chazelle con Babylon), che però finiscono quasi sempre nell’inciampare raccontandola. West riesce a mantenersi in equilibrio, affidandosi all’intensità nervosa e destabilizzante della sua musa, regalandone un’uscita di scena che non ne disvela il mistero. Dentro Maxine si agiterà per sempre lo spettro dell’oscurità, l’indecisione se salvare gli altri o sé stessa, ricorrendo all’omicidio come arma e via di fuga d’elezione.