May December, recensione: Portman e Moore sono vere serpi per Todd Haynes
Natalie Portman e Julianne Moore sono due donne pericolose a cui è impossibile resistere nel nuovo trionfo del camp di Todd Haynes: leggi la recensione di May December.
Non è il tipo di serpente che morde, dice il personaggio di Natalie Portman al suo giovane compagno di set mentre girano una sensuale scena di un film in corso di produzione. I serpenti che non mordono hanno però altri modi di uccidere le loro vittime, più sottili e pericolosi.
È sul filo e della seduzione e del pericolo che si schiude lentamente, silenziosamente, inesorabilmente May December, il nuovo film di Todd Haynes. Il regista di Carol e Lontano dal paradiso elude sin da subito le aspettative dello spettatore, spiazzandolo. May December non è un film che spiega sé stesso, preferendo invece i toni talvolta stridenti del camp per portarci pian piano a vedere quello che il regista vuole raccontare.
Come la sua fotografia e il suo uso della musica da soap opera, le risposte date sembrano, ovvie, stucchevoli, pretenziose. Sotto però c’è un grande film, incentrato sullo scontro tra due personaggi che finiscono per riflettere le stesse ingenuità e la stessa aggressività. Due donne per cui “le persone insicure sono pericolose”.
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Di cosa parla May December
Siamo in una cucina di una magione all’americana e Julianne Moore sta preparando stuzzichi per un barbecue. Interpreta Gracie, una casalinga impegnata a sfornare torte e prendersi cura della sua famiglia, che però occasionalmente riceve per posta scatole piene di escrementi, o come direbbe lei, “scatole di emme-e-erre-di-a”.
Gracie chiede al marito Joe (un ragazzone piacente molto più giovane di lei) di occuparsi di piatti e bicchieri. Sta parlando con un’amica dell’arrivo di una star di Hollywood a casa sua. I sentimenti di Gracie rispetto alla possibilità che l’attrice Elizabeth Berry (Natalie Portman) la interpreti in un film che ricostruirà la vicenda che la portò in carcere e sui giornali di tutta la nazione sono contrastanti; non verranno mai chiariti del tutto.
Gracie si avvicina al frigo e lo apre. Lo sguardo si fa vitreo, improvvisamente parte a tutto volume il giro di pianoforte intenso e melodrammatico scritto da Michel Legrand per la colonna sonora di Messaggero d'amore di Joseph Losey(film vincitore della Palma d’Oro nel 1971). Gracie esclama, con voce intensa e tesa: “non credo abbiamo abbastanza hot dog”.
La scena già cult del frigo è solo l’inizio di un film che sa indagare dentro la cultura degli scandali, dei tabloid e oltre le ipocrisie di una certa pretesa di Hollywood di dare “ritratti sensibili e umani”, sguazzando però dentro nei toni iperbolici e nelle esagerazioni propri di questi ambiti.
Sulla carta il film dovrebbe dirci qualcosa sul matrimonio tra Joe e Gracie. Siamo nel 2015, i due stanno insieme da 24 anni. Hanno superato tante difficoltà e uno scandalo enorme: Gracie infatti ha cominciato a frequentare Joe nel 1992, quando lui aveva 13 anni e lei 36. Il primo figlio di Gracie, all’epoca sposata, andava a scuola con Joe. Dall’amore clandestino è nato anche un figlio, dietro le sbarre.
L’arrivo di Elizabeth nella vita di Gracie e Joe gratta via la patina di consuetudine e rivela ben presto quanto l’armonia attuale sia percorsa da non detti e correnti d’infelicità.
Qui però arriva il colpo da maestro di Haynes, che in realtà è molto più interessato a Elizabeth, al suo insinuarsi dentro la vita di Gracie, alla ricerca di chissà che. Il film diventa quindi una pellicola su quel porsi degli attori a “indagatori della verità” e su come Elizabeth non abbia poi molto da capire su Gracie, perché ne condivide la natura ingenua, spietata, priva d’insicurezze.
Cosa funziona e cosa no in May December
Chi scrive ha visto il film due volte al Festival di Cannes. La prima, va detto, ho faticato ha entrare nei meandri di un film che si tiene strette le poche e ambigue verità che porta con sé, respingendo lo spettatore con un livello di camp a cui non siamo più abituati.
Molti hanno parlato di un film alla De Palma condotto con l’eleganza e la maestria di Todd Haynes, ma è a me ha ricordato e molto il modo di Paul Verhoeven (Basic Instinct, Benedetta) si andare filato per la sua strada lasciando lo spettatore indietro, a mettere insieme i pezzi.
Il camp è quel qualcosa di eccessivo, sopra le righe, oltremodo manierato, condotto con assoluta serietà e intenzione, ma anche inconsapevolezza. Non è semplice da fare, ricevere o digerire, specie se inaspettato. Alla seconda visione però, arrivando preparati, si spiega davanti a sé un film bellissimo e brutale.
Haynes ha un debole per un certo tipo di grande attrice dall’allure misteriosa e dalle capacità inequivocabili. È stata Natalie Portman ha proporgli questa storia: lui in cambio le regala un ruolo strepitoso, d cui lei tira fuori qualcosa di sensazionale.
Elizabeth non è uno specchio né una riproduzione realistica di una star hollywoodiana. A un certo punto del film le viene chiesto come si girano le scene di sesso e lei dà una risposta antitetica a quella standard: “Am I pretending I’m experiencing pleasure, or am I pretending I’m not experiencing pleasure?” (Sto facendo finta di godere o sto facendo finta di non provare piacere?). È l’opposto del racconto medio di un attore in circostanze simili.
Elizabeth è una creatura la cui inconsapevole capacità di sedurre, la voce sussurrata, la sicurezza sconfinata in sé irretiscono chiunque. Esattamente come Gracie. Il suo stare vicino alla protagonista dello scandalo la porta e somigliarle sempre di più. Volutamente o perché le due, di fondo, sono la stessa persona? Anche Julianne Moore fa un lavoro incredibile, tenendo insieme l’immaturità da ragazzina di Gracie che piange e prende tutto sul serio con la ferocia con cui tiene attorno a sé le persone a cui ha distrutto la vita.
Il più bravo di tutti, che rischia di scomparire in mezzo a questi due giganti della recitazione, è Charles Melton nei panni del marito ex adolescente sedotto Joe. Man mano che il film procede, capiamo con straziante chiarezza quanto sia rimasto prigioniero del suo passato, vecchio e senza speranza pur non avendo ancora 40 anni, più responsabile dell’adulta che gli ha rubato l’adolescenza, condannato dalla sua sensibilità.
In una scena ha un’improvvisa presa di consapevolezza e, guardando il figlio quasi adulto e non molto più vecchio di lui, prorompe: “I don’t know if we’re connecting, or if I’m creating a bad memory for you” (non so se stiamo avendo uno scambio positivo o se sto solo creando un brutto ricordo per te). Lo vediamo con chiarezza, ragazzone mai diventato adulto ma cresciuto prima di tutti gli altri, prima anche dello scandalo. Una visione straziante, che spezza il cuore.
Todd Haynes è il re del melodramma, che sia soffuso ed elegantissimo come Carol o sensazionalistico e privo di buon gusto come May December. Sotto la sua direzione il copione di Samy Burch prende vita in maniera deliziosamente camp, senza mai diventare ridicolo o affettato.