Mission: Impossible - Rogue Nation
di
Marco Modugno
Infilare una serie di 5 non é facile, a meno che uno non si chiami Jason Vorhees, Michael Myers o Freddie Krueger (e in quel caso, purtroppo, la curva della qualità dei sequel segue la traiettoria dell'immersione di un apneista cubano). James Bond, con 23 film ufficiali più un paio di apocrifi all'attivo, é un caso a parte, e Rocky al quinto film ci é arrivato più suonato di Mike Tyson al suo terzo arresto.
Mentre Jason Bourne, la superspia creata dalla penna di Robert Ludlum, ha segnato la battuta d'arresto della sua carriera alla terza pellicola, con un quarto film che é solo uno spin-off senza di lui come protagonista. Per non parlare di Jack Ryan, protagonista dei romanzi del compianto Tom Clancy, interpretato al cinema da una pattuglia variegata di attori da Alec Baldwin a Harrison Ford fino a un Ben Affleck ancora agli esordi, espressivo come un aspirapolvere Folletto . Per questo la sfida di Tom Cruise poteva sembrare azzardata, anche se il successo di Protocollo Fantasma, quarto episodio della serie Mission Impossible, aveva segnato il punto, regalandoci un film decisamente superiore a tutti e tre i suoi predecessori. Lecito quindi, anche se arduo, attendersi che il crescendo rossiniano in termini di qualità potesse seguitare.
I recensori imparano alle elementari a sforzarsi di essere imparziali, ma siamo esseri umani e siccome non stravedo per Tom Cruise non posso dire di essere andato a vedere il film, in prima stampa a Roma ai primi di agosto, senza un briciolo di pregiudizio addosso. La regia di Christopher McQuarrie, impeccabile dal primo minuto all'ultimo, non ci ha messo tanto, però, a spazzare via a recuperare l'handicap dettato dal mio limite umano personale, scaraventandomi in un cocktail ribollente di azione, intrigo spionistico e umorismo miscelato in modo impeccabile, tanto da ricordare i migliori film di 007.
Lo stile di Ethan Hunt, decisamente più americano della famosa spia con licenza di uccidere al servizio di Sua Maestà, é decisamente personale e oggi, al quinto film, possiamo tranquillamente dire che il franchise procede spedito, forte di una sua identità, guadagnata anche attraverso lo sviluppo dei coprotagonisti ricorrenti e non. Il cast, impeccabile, aggiunge a Simon Pegg, a Ving Rhames e a Jeremy “Hawkeye” Renner un Alec Baldwin bolso e tronfio, perfetto nel ruolo del direttore della Cia, uno Sean Harris gelido fino allo zero Kelvin, il cui accento cockney pronunciato a denti stretti fa perfetto contraltare, nella versione originale, all'inglese campagnolo di Pegg-Benji, più aperto e solare, cattivo d'eccezione.
Ma soprattutto una Rebecca Ferguson meravigliosa, pronta a ritagliarsi di qui in avanti, se ne avrà voglia, ruoli di spietata e invincibile guerriera, capace di passare da una scienza d'azione all'altra senza mai smarrire per un istante la sua femminilità elegante e felina. Impossibile immaginare una rosa di attori migliore, ciascuno capace di assumere il suo ruolo, drammatico o ironico a seconda dei momenti, fino all'ultimo minuto di pellicola.
Due ore volano, quindi, mentre l'azione vede l'agente Hunt isolato, abbandonato da tutti men che dagli amici più cari, costretto ad allearsi con una spia inglese (la Ferguson, nei panni di Ilsa Faust, un nome che sa un po' di nazi-horror anni '70, ma cosa non si perdonerebbe a un film cos…) ambigua ed enigmatica. Una donna capace di atterrare con tecniche di ju-jitsu una mezza dozzina di avversari armati in abito da sera, durante una serata all'opera di Vienna, e darti la birra in un inseguimento in moto sul filo dei duecento sulle strade tortuose che salgono da Casablanca ai monti dell'Atlante, metterebbe soggezione a chiunque.
[/rquote]Apri il portello dell'aereo, Benji! No! L'altro portello![/rquote]
Tranne che all'agente Ethan Hunt. Se l'IMF di cui faceva parte é stato sciolto, lui non rinuncia a perseguire una missione che é ormai molto più di un incarico tattico, alla caccia dell'elusivo Solomon Lane (la quasi omonimia, che mi rifiuto di ritenere casuale, avrà fatto piacere ai fan di Robert E. Howard), leader del Sindacato. Attuale come non mai l'idea di un cartello corporativo prezzolato dall'alta finanza, creato dai servizi di intelligence ma poi sfuggito al loro controllo, che ora si prepari a sovvertire l'ordine mondiale che i suoi agenti, un tempo, erano stati addestrati a proteggere.
Una specie di anti-IMF, come gli sceneggiatori del film hanno spiegato. Rogue Nation si traduce letteralmente in “stato canaglia” ma in realtà, nel film di McQuarrie non sono le nazioni a farsi la guerra, ma organismi supernazionali nei confronti dei quali la politica e lo spionaggio tradizionali appaiono disarmati e impotenti.
Gli scenari scelti per ambientare l'azione sono magnifici e fastosi, nella migliore tradizione del cinema di spionaggio di serie A. L'immancabile Londra, che nonostante l'immigrazione dilagante e la colonizzazione invasiva, anche in centro, dell'architettura gradita ai nuovi padroni arabi, tutta vetro, cemento e acciaio, non ha perso il suo smalto di capitale delle spie, si affianca a una Vienna asburgica, ritratta nella magnificenza della Wiener Staatsoper dove é in cartellone il debutto di una fastosa Turandot.
Per trasferirsi poi in Marocco, in una Casablanca sospesa tra la tradizione degli stretti vicoli e la modernità della motorizzazione di massa, messa in seria crisi dalle spericolate evoluzioni di Cruise e compagni, alla guida di auto e moto BMW spinte al limite (indovinate quale casa automobilistica sponsorizza il film?). Per finire di nuovo a Londra con una serie di colpi di scena che finiscono per tirare in ballo anche l'inquilino del numero 10 di Downing Street. Finale e finalone per nulla scontati, sia pur nella logica della lieta conclusione della missione, lecita da attendersi in un film del genere. Tutto é bene quel che finisce bene, ma qui quelli che sorridono più di tutti sono i produttori del film, che hanno infilato nel carniere un altro successo e messa una seria ipoteca sulla realizzazione a breve del sesto capitolo della serie.
L'eredità di Rogue Nation sicuramente si farà sentire, visto che non sarà facile mantenere sempre un ritmo così alto. La sensazione, uscendo dal cinema, é di essere tornati (con una proporzionale evoluzione tecnologica e narrativa) ai tempi gloriosi del miglior 007, quello di Connery, di Lazenby e del primo Moore. Sarà dura ora, per Daniel Craig, che nonostante la presenza decisamente più consona al ruolo di quella dei suoi due predecessori, ha dovuto aspettare tre film per scrivere finalmente una pagina epica nella storia di Bond, conservare la patente di spia più famosa del mondo. Almeno fino a quando, come si dice dalle mie parti, all'oggi cinquantatreenne Cruise (ma in forma smagliante più che mai) reggerà la pompa. Dove lo trovano un altro pazzo americano che gira la quasi totalità delle scene d'azione senza controfigura?
Non basta, infatti, spendere un sacco di soldi e schierare un paio di attori famosi (Cruise e Baldwin, e il secondo nemmeno troppo sulla cresta dell'onda ultimamente), più una pattuglia di barvi mestieranti del cinema per centrare il bersaglio di un film di enorme successo. Essenziali sono una regia robusta, sicura di sé, capace di osare senza eccessi di sperimentazione, una sceneggiatura che articoli bene dramma e ironia, lasciando il giusto spazio all'azione attesa dal pubblico e ai colpi di scena che tengono bloccati alla poltrona fino alla fine del film.
E un affiatamento speciale tra gli attori e tutto lo staff, che permette di accordare in modo armonico tutto questo con la performance di ognuno. MI: RN centra tutti i bersagli, uno dopo l'altro, con la precisione di un agente segreto al poligono. Meritandosi senza riserve il titolo di film da vedere assolutamente, in questa seconda metà d'estate. Appuntamento il 19 agosto, nei cinema italiani, per quelli che, approfittando di un viaggio all'estero, non hanno avuto già la fortuna di vederselo, in lingua originale.
Mentre Jason Bourne, la superspia creata dalla penna di Robert Ludlum, ha segnato la battuta d'arresto della sua carriera alla terza pellicola, con un quarto film che é solo uno spin-off senza di lui come protagonista. Per non parlare di Jack Ryan, protagonista dei romanzi del compianto Tom Clancy, interpretato al cinema da una pattuglia variegata di attori da Alec Baldwin a Harrison Ford fino a un Ben Affleck ancora agli esordi, espressivo come un aspirapolvere Folletto . Per questo la sfida di Tom Cruise poteva sembrare azzardata, anche se il successo di Protocollo Fantasma, quarto episodio della serie Mission Impossible, aveva segnato il punto, regalandoci un film decisamente superiore a tutti e tre i suoi predecessori. Lecito quindi, anche se arduo, attendersi che il crescendo rossiniano in termini di qualità potesse seguitare.
I recensori imparano alle elementari a sforzarsi di essere imparziali, ma siamo esseri umani e siccome non stravedo per Tom Cruise non posso dire di essere andato a vedere il film, in prima stampa a Roma ai primi di agosto, senza un briciolo di pregiudizio addosso. La regia di Christopher McQuarrie, impeccabile dal primo minuto all'ultimo, non ci ha messo tanto, però, a spazzare via a recuperare l'handicap dettato dal mio limite umano personale, scaraventandomi in un cocktail ribollente di azione, intrigo spionistico e umorismo miscelato in modo impeccabile, tanto da ricordare i migliori film di 007.
Lo stile di Ethan Hunt, decisamente più americano della famosa spia con licenza di uccidere al servizio di Sua Maestà, é decisamente personale e oggi, al quinto film, possiamo tranquillamente dire che il franchise procede spedito, forte di una sua identità, guadagnata anche attraverso lo sviluppo dei coprotagonisti ricorrenti e non. Il cast, impeccabile, aggiunge a Simon Pegg, a Ving Rhames e a Jeremy “Hawkeye” Renner un Alec Baldwin bolso e tronfio, perfetto nel ruolo del direttore della Cia, uno Sean Harris gelido fino allo zero Kelvin, il cui accento cockney pronunciato a denti stretti fa perfetto contraltare, nella versione originale, all'inglese campagnolo di Pegg-Benji, più aperto e solare, cattivo d'eccezione.
Ma soprattutto una Rebecca Ferguson meravigliosa, pronta a ritagliarsi di qui in avanti, se ne avrà voglia, ruoli di spietata e invincibile guerriera, capace di passare da una scienza d'azione all'altra senza mai smarrire per un istante la sua femminilità elegante e felina. Impossibile immaginare una rosa di attori migliore, ciascuno capace di assumere il suo ruolo, drammatico o ironico a seconda dei momenti, fino all'ultimo minuto di pellicola.
Due ore volano, quindi, mentre l'azione vede l'agente Hunt isolato, abbandonato da tutti men che dagli amici più cari, costretto ad allearsi con una spia inglese (la Ferguson, nei panni di Ilsa Faust, un nome che sa un po' di nazi-horror anni '70, ma cosa non si perdonerebbe a un film cos…) ambigua ed enigmatica. Una donna capace di atterrare con tecniche di ju-jitsu una mezza dozzina di avversari armati in abito da sera, durante una serata all'opera di Vienna, e darti la birra in un inseguimento in moto sul filo dei duecento sulle strade tortuose che salgono da Casablanca ai monti dell'Atlante, metterebbe soggezione a chiunque.
[/rquote]Apri il portello dell'aereo, Benji! No! L'altro portello![/rquote]
Tranne che all'agente Ethan Hunt. Se l'IMF di cui faceva parte é stato sciolto, lui non rinuncia a perseguire una missione che é ormai molto più di un incarico tattico, alla caccia dell'elusivo Solomon Lane (la quasi omonimia, che mi rifiuto di ritenere casuale, avrà fatto piacere ai fan di Robert E. Howard), leader del Sindacato. Attuale come non mai l'idea di un cartello corporativo prezzolato dall'alta finanza, creato dai servizi di intelligence ma poi sfuggito al loro controllo, che ora si prepari a sovvertire l'ordine mondiale che i suoi agenti, un tempo, erano stati addestrati a proteggere.
Una specie di anti-IMF, come gli sceneggiatori del film hanno spiegato. Rogue Nation si traduce letteralmente in “stato canaglia” ma in realtà, nel film di McQuarrie non sono le nazioni a farsi la guerra, ma organismi supernazionali nei confronti dei quali la politica e lo spionaggio tradizionali appaiono disarmati e impotenti.
Gli scenari scelti per ambientare l'azione sono magnifici e fastosi, nella migliore tradizione del cinema di spionaggio di serie A. L'immancabile Londra, che nonostante l'immigrazione dilagante e la colonizzazione invasiva, anche in centro, dell'architettura gradita ai nuovi padroni arabi, tutta vetro, cemento e acciaio, non ha perso il suo smalto di capitale delle spie, si affianca a una Vienna asburgica, ritratta nella magnificenza della Wiener Staatsoper dove é in cartellone il debutto di una fastosa Turandot.
Per trasferirsi poi in Marocco, in una Casablanca sospesa tra la tradizione degli stretti vicoli e la modernità della motorizzazione di massa, messa in seria crisi dalle spericolate evoluzioni di Cruise e compagni, alla guida di auto e moto BMW spinte al limite (indovinate quale casa automobilistica sponsorizza il film?). Per finire di nuovo a Londra con una serie di colpi di scena che finiscono per tirare in ballo anche l'inquilino del numero 10 di Downing Street. Finale e finalone per nulla scontati, sia pur nella logica della lieta conclusione della missione, lecita da attendersi in un film del genere. Tutto é bene quel che finisce bene, ma qui quelli che sorridono più di tutti sono i produttori del film, che hanno infilato nel carniere un altro successo e messa una seria ipoteca sulla realizzazione a breve del sesto capitolo della serie.
L'eredità di Rogue Nation sicuramente si farà sentire, visto che non sarà facile mantenere sempre un ritmo così alto. La sensazione, uscendo dal cinema, é di essere tornati (con una proporzionale evoluzione tecnologica e narrativa) ai tempi gloriosi del miglior 007, quello di Connery, di Lazenby e del primo Moore. Sarà dura ora, per Daniel Craig, che nonostante la presenza decisamente più consona al ruolo di quella dei suoi due predecessori, ha dovuto aspettare tre film per scrivere finalmente una pagina epica nella storia di Bond, conservare la patente di spia più famosa del mondo. Almeno fino a quando, come si dice dalle mie parti, all'oggi cinquantatreenne Cruise (ma in forma smagliante più che mai) reggerà la pompa. Dove lo trovano un altro pazzo americano che gira la quasi totalità delle scene d'azione senza controfigura?
Non basta, infatti, spendere un sacco di soldi e schierare un paio di attori famosi (Cruise e Baldwin, e il secondo nemmeno troppo sulla cresta dell'onda ultimamente), più una pattuglia di barvi mestieranti del cinema per centrare il bersaglio di un film di enorme successo. Essenziali sono una regia robusta, sicura di sé, capace di osare senza eccessi di sperimentazione, una sceneggiatura che articoli bene dramma e ironia, lasciando il giusto spazio all'azione attesa dal pubblico e ai colpi di scena che tengono bloccati alla poltrona fino alla fine del film.
E un affiatamento speciale tra gli attori e tutto lo staff, che permette di accordare in modo armonico tutto questo con la performance di ognuno. MI: RN centra tutti i bersagli, uno dopo l'altro, con la precisione di un agente segreto al poligono. Meritandosi senza riserve il titolo di film da vedere assolutamente, in questa seconda metà d'estate. Appuntamento il 19 agosto, nei cinema italiani, per quelli che, approfittando di un viaggio all'estero, non hanno avuto già la fortuna di vederselo, in lingua originale.