Monkey Man, recensione: John Wick farebbe bene a guardarsi le spalle
L’attore Dev Patel fa il suo esordio alla regia con un action teso, adrenalinico, crudo: Monkey Man è una storia di vendetta che non ha paura di guardare da vicino la violenza di chi da nessuno diventa qualcuno.
C’è un curioso cortocircuito alla base di Monkey Man, il film di vendetta che segna il debutto alla regia dell’attore Dev Patel. Difficile, forse impossibile resistere alla tentazione di paragonarlo a John Wick.
I due film sembrano somigliarsi a livello narrativo: entrambi vedono per protagonista un uomo che ha subito un grave torto in forma di lutto familiare. Silenzioso, solitario, di poche parole, questo giustiziere è disposto ad affrontare molti combattimenti e tanto dolore per vendicarsi. Proprio come i film della saga di John Wick, Monkey Man non ha paura di mostrare la violenza. Quando ci si picchia, non si rifugge dal mostrare i pugni che colpiscono le carni, i denti che la azzannano, le lame che s’infilano nelle gole, magari anche al rallentatore. Anzi: Patel spinge decisamente molto più in alto l’asticella della violenza. La regia e il montaggio talvolta risultano un po’ confusionari, quasi fosse una registrazione in presa diretta e in stile guerrilla, non si capisce quanto per scelta stilistica e quanto per limiti di produzione**. Nel raccontare la violenza in sé invece Patel supera il predecessore.**
Il paragone però si spinge molto più in là, fuori dal confine della storia. Monkey Man in un certo senso è una rivincita, esattamente quanto John Wick e si prepara ad aprire una nuova fase nella carriera e nella vita del suo regista e protagonista. Reeves è rinato grazie al successo di John Wick. Patel, che ha lottato per 8 anni per riuscire a concretizzare il suo debutto alla regia e a farlo nei suoi termini, si gode un importante successo di critica e si avvia ad affrontare un botteghino che potrebbe essere stellare. Il merito è anche del regista di Get Out Jordan Peele, che ha “salvato” il progetto dall’approdo diretto sulle piattaforme, aiutandolo ad approdare al cinema.
L’India immaginaria di Monkey Man è sporca e cattiva
Perché allora Patel cerca di sfuggire a questo paragone, nonostante nel film un commerciante abusivo d’armi gli proponga una pistola “come quella di John Wick”? Considerando che parte dei tecnici che lavorarono a quel film hanno collaborato anche con Patel, sembrerebbe un paragone lecito. La risposta sta nei modelli a cui l’attore guarda, a quei revenge movieda cui ha preso ispirazione e che vanno oltre i confini statunitensi: la trilogia della vendetta di Park Chan-wook e conseguente filone di revenge movie coreani, l’indonesiano The Raid, i classici con protagonista Bruce Lee a partire da I 3 dell'Operazione Drago.
È a quella tradizione, più ruvida e internazionale, che Patel guarda, a cui vorrebbe essere associato. D’altronde c’è qualcosa che rende il suo Monkey Man intrinsecamente differente da un progetto come John Wick, nato con il desiderio di spettacolarizzare e mettere al centro il lavoro degli stuntman, l’estetica del combattimento, della sparatoria. In Monkey Man c’è la voglia di usare sì la violenza come forma narrativa, ma per tracciare la parabola di “un nessuno che può diventare qualcuno”.
Wick è già un serial killer leggendario all’inizio del film. Kid (Dev Patel) invece è un signor nessuno che sbarca il lunario partecipando a combattimenti clandestini in cui gli viene chiesto di perdere. Nascosto dietro la maschera di una scimmia, pianifica la sua lenta scalata al club Kings, dove si ritrovano i responsabili della morte della madre: poliziotti corrotti, figure politiche di spicco, santoni con le mani in pasta ovunque. Cadrà più volte, perché non c’è niente di più difficile che per un reietto di trovare lo spazio e il modo di affrontare i potenti.
Monkey Man vuole essere il racconto di un’India in cui corruzione e sopraffazione sono il linguaggio universale che tiene tutto insieme, in cui gli ultimi possono al massimo aspirare ad essere sfruttati dai più potenti, a fini sessuali o elettorali. È un risvolto che viene depotenziato dal fatto che Patel crea una città fittizia, dei potenti inventati, slegando di fatto quest’India immaginaria dai problemi e dalle spinte nazionalistiche di quella vera.
Infinitamente più interessante invece è il ritratto della comunità religiosa degli hijra, persone intersessuali il cui stile di vita comunitario e radicale da una svolta davvero accattivante a uno dei passaggi più convenzionali di questo genere di storie, cioè il montaggio con il duro allenamento del protagonista per diventare più forte.
Patel regista convince, Patel lottatore conquista
Come regista Dev Patel convince ma non impressiona, perché le lunghissime sequenze d’inseguimenti e combattimenti sono al contempo impressionati in positivo - per ambizione e durata - ma anche in negativo - per la scarsa leggibilità dell’azione dovuta a una gestione non ottima dei movimenti della cinepresa.
Come attore protagonista di un action invece è promosso a pieni voti. Muscoloso, asciutto, intenso, conquista nel ruolo del lottatore e paria, scavato e consumato dal desiderio di vendetta. Involontariamente ha fatto un grande provino per il ruolo di James Bond, i cui peggiori difetti cinematografici percolano fino a qui. Che mestizia il ruolo della prostituta che aiuta Kid, affiorando dallo sfondo giusto il tempo per suggerire un’intesa col protagonista, che mena le mani in un film in cui tutti menano le mani solo con l’unico altro personaggio femminile del cast.
Monkey Man è un gran bell’esordio attoriale, un revenge movie che porta a Hollywood un cinema più crudo, più sporco, più cattivo della parabola sempre più stilizzata e stilosa di John Wick. Rimane un film con alcuni importanti limiti registici e ingenuità narrative. Promosso invece a pieni voti Dev Patel nel suo primo ruolo così fisico, da giustiziere e lottatore.