Monster, l'horror indonesiano di Netflix: un esperimento interessante, ma fallito
Scopriamo insieme Monster, l'horror senza dialoghi di Netflix
Su Netflix il 16 maggio è arrivato questo horror indonesiano, girato a Giacarta, che sarebbe totalmente da scartare se non per l’idea. Si tratta infatti di un film non muto, ma completamente privo di dialoghi. Netflix avvisa gli spettatori di questa particolarità, che sarebbe potuta essere davvero interessante e che funziona fino a un certo punto del film, per poi sbriciolarsi in una serie di sequenze totalmente inverosimili, anche solo per l’assenza di imprecazioni da parte di alcuni personaggi.
Fatto sta che tutta la prima parte fila via liscia. Anche perché, vista la natura del cattivo di turno, il silenzio ci sta. Siamo di fronte a un orrore vero e proprio, un orrore tangibile e angosciante, che due bambini sperimentano quando vengono rapiti.
Ma andiamo con ordine.
La trama di Monster
Alana e Rabin indossano le loro divise scolastiche e pensano di affrontare una giornata come tutte le altre. Ma quando vengono rapiti da un uomo, che li carica a bordo della sua auto e li separa, rinchiudendoli in una casa sperduta in mezzo al nulla, Alana ingaggia una lotta con l’uomo per salvare se stessa e Rabin.
Quando tutto sembra essere finito, l’incubo ricomincia e Alana dovrà trovare dentro di sé la forza per opporsi a un secondo killer spietato…
La recensione di Monster: come sprecare una buona idea
All’inizio sembrano essere fratelli ed è quindi comprensibile che Alana rischi la vita, in più occasioni, per tentare di salvare Rabin. Ma poi, a un esame più attento, leggiamo i loro nomi sulla camicia e scopriamo che non sono parenti. Sono semplicemente amici. Amici come lo si è da bambini, quando si pensa che si resterà insieme per tutta la vita.
Il vero punto di forza di questo film, esperimento non riuscito ma coraggioso, è la determinazione di Alana che, nonostante non sia che una bambina, trova continuamente dentro di sé (e attorno a sé) le risorse per continuare a combattere.
La verosimiglianza per una ventina di minuti, c’è. Crediamo a tutto ciò che vediamo avvenire sullo schermo e ci appassioniamo alla vicenda. Ma quando, man mano che si scopre l’orrore, il regista
Rako Prijanto (Perfect Strangers) cambia registro mentre la sceneggiatura cambia decisamente livello, tutto crolla.
Una lunga, quasi infinita caccia del cattivo di turno ai due bambini in fuga diventa occasione per sottoporci a una sequela di eventi totalmente inverosimili, in particolare per il comportamento dell’adulto in campo.
Va bene l’assenza di dialoghi - il suono c’è, e funziona, visto il panico che coglie Rabin quando si trova con il rapitore - ma che non scappi neanche un’imprecazione, o una minaccia, non ha veramente senso.
Psicopatici sì, ma muti no. Per non parlare della totale insensatezza di colpire personaggi la cui scomparsa equivale a una condanna senza appello. Psicopatici sì, ma stupidi (per tutto il tempo presupposto dei crimini) no. Sebbene l'incapacità di Marsha Thomas risulti imbarazzante, e in gran parte il fallimento lo si può attribuire a lei.
Un inizio davvero suggestivo e credibile, con un prosieguo da cancellare
Ci giro intorno per evitare spoiler, in caso voleste vederlo perché la prima parte è davvero suggestiva, ma non posso certo astenermi dall’elencare i numerosi difetti di un film che sarebbe potuto essere memorabile. Ma diventa noioso, stiracchiato, con un finale che poteva funzionare senza i precedenti 20-30 minuti di inseguimenti.
Il mostro del titolo è chiaramente l’adulto malato e predatore che dà la caccia ai bambini da tanto, troppo tempo. Rendendo il mondo intero un luogo oscuro e spaventoso. Stavolta, però, uno dei bambini - la ragazzina, perché di questi tempi la giovane eroina è di gran moda - si ribella al sistema malato in cui il mostro l’ha trascinata.
Apprezzabile l’assenza di mosse geniali da parte di Alana: si difende come può, scappa, usa più la velocità che il cervello. Almeno dopo l’inizio. Almeno è tutto più credibile.
Insopportabile, invece, lo stereotipo del cattivo che avanza implacabile come un Terminator ma lento come uno zombie di Romero, senza proferire parola come Michael Myers e senza essere mai sconfitto come Jason Vorhees. Ce li ho messi tutti, sì, perché siamo veramente di fronte a una banalità recitativa ma anche interpretativa - a livello di sceneggiatura, intendo - di una storia che poteva funzionare alla grande ma è viziata dalla visione di troppi horror con i soggetti di cui sopra. Non a caso, a firmare la sceneggiatura sono in tre, ma senza il regista: David Charbonier (The Boy Behind the Door), Justin Powell (con una rispettabile carriera da montatore di film come Hunger Games e Divergent) e Alim Sudio (Losmen Bu Brotu).
Una partecipazione di chi doveva dirigere il film alla stesura della sceneggiatura sarebbe stata fondamentale in un progetto come questo. Visto il livello degli sceneggiatori, poi, sarebbe stato anche quasi obbligatorio.