Nosferatu, recensione: il nuovo Dracula è un demone horror pagano, ma la vera protagonista è la sua vittima

Il vampiro di Robert Eggers è un'ombra horror e un demone pagano, ma questo Nosferatu è soprattutto la storia di una vittima sacrificale.

di Elisa Giudici

Nosferatu segna una possibile svolta nella carriera di Robert Eggers, autore con un set distintivo di temi e motivi ricorrenti che lo rendono immediatamente riconoscibile a chi frequenta il suo cinema, ma fino a oggi poco noto al grande pubblico proprio per l’originalità della sua visione e delle storie che racconta. In altre parole, è molto amato da quei pochi che hanno dato una chance ai suoi film, talvolta ignorati perché non riconducibili a personaggi e franchise noti. Per quanto ci piaccia lamentarci di come il cinema d’oggi manchi di originalità e riproponga sempre le stesse storie, Eggers farà il salto al mainstream proprio con una pellicola che racconta una storia presente al cinema sin dagli albori della nona arte: quella del vampiro Nosferatu, uno degli antesignani del genere.

I pregi e i difetti di Nosferatu stanno tutti in questa premessa e nel carattere distintivo e fortemente personale del cinema di Eggers. Pur avendo molti punti di riferimento letterari e cinematografici (i personaggi hanno gli stessi nomi del classico vampiresco di F. W. Murnau, il taglio introspettivo guarda soprattutto al Dracula di Werner Herzog), il film cerca di trovare una strada sua, che rispecchi la personalità dell’autore. Quando ci riesce, come nell’esaltante mezz’ora finale, Nosferatu spicca davvero il volo. Il doversi continuamente confrontare con un corpus così noto (e così riuscito, perché nel filone vampiresco ci sono davvero paragoni scomodi, vedi il Dracula di Francis Ford Coppola) taglia un po’ le gambe a un titolo che in avvio è poco a fuoco e poco incisivo.

Nosferatu racconta il conflitto tra scienza moderna e tradizione pagana

Nosferatu si apre nella piena oscurità: dopo i loghi elle case di produzione ridisegnati per adattarsi all’atmosfera gotica del titolo, appare dall’ombra il volto cesellato della protagonista Lily-Rose Depp che invoca aiuto. La solitudine lacerante della vita la spinge a chiedere un conforto, un rapporto umano vero. Ellen Hutter prega il cielo, ma qualcosa sotto terra le risponde e Eggers ci porta lì con un vertiginoso panning di camera che è una cifra stilista propria del suo cinema. Vediamo la giovane contorcersi e gemere con una gestualità sospesa tra l’estasi carnale e il dolore fisico. Stacco a nero, titolo in caratteri gotici, stacco a nero.

Eggers ci trasporta nella Germania del 1838. Ci ritroviamo per un tratto di strada nella versione “ufficiale” della storia, o quantomeno quella che ci è più familiare. Una giovane donna di rara bellezza è sposata a un avvocato che viene spedito in Transilvania come consulente per un bizzarro conte che vuole trasferirsi in Europa. Se il film non scade del tutto in un manierismo un po’ affettato, è soprattutto merito di una sorprendente, evocativa colonna sonora firmata da Robin Carolan, che insieme a fotografia e scenografia costruisce un’atmosfera romantica (nel senso letterario del termine) a tratti gotica. I colori sono slavati, le nebbie persistenti, l’oscurità pressa ai bordi dell’immagine talvolta rischiarata, incendiata dalla luce delle candele, delle torce dei falò.

Un’ora più tardi il personaggio di Willem Defoe, lo strambo e radicale professor Albin Eberhart Von Franz, ci fornirà la chiave di lettura dell’interno film: il contrasto tra la luce gassosa dell’epoca moderna e quelle fiammate di tradizione e antichi riti che, dimenticati e derisi, si aggirano indisturbati nella nuova modernità. Non appena si avvicina alla sfera del paganesimo e della religione, il film cambia passo, perché è sempre stato quello l'interesse che muove la curiosità e il cinema del regista. Quando l’avvocato di Nicholas Hoult si ritrova in mezzo a un gruppo di nomadi rumeni che effettua strani riti pagani, è come se Eggers scivolasse fuori dall’ombra, si riappropriasse della sua voce.

Robert Eggers non riesce a fare suo il mito del vampiro e soffre il confronto con il canone

Quando invece si muove nel canone prestabilito, il film zoppica. Sembra quasi mal scritto, anche considerando l’atmosfera allucinata e onirica del viaggio di Thomas lontano dalla moglie Ellen, che sfuma i contorni del reale, del logico. Ci sono delle cadute di stile clamorose per un regista così attento, passaggi deboli che perdoneremmo a film meno ambiziosi: i personaggi che dopo aver capito con cosa hanno a che fare decidono di bussare a casa Orlok nel cuore della notte, il conte che dorme nella terra maledetta del suo sarcofago con un’accetta lì pronta per i visitatori per tentare di ucciderlo.

Eggers è un po’ come il personaggio di Defoe: in un mondo che crede nella modernità ed è serio e compito, ama studiare le tradizioni pagane, farle proprie, a costo di sembrare fuori posto. Nosferatu come canone e archetipo però non viene rivoltato appieno, non diventa il trionfo del paganesimo, quanto piuttosto una causa messa a fuoco di come la cieca fede nel progresso, il derubricare antiche superstizioni (religione compresa) come rituali privi di senso sia un tipo di miopia intellettuale altrettanto pericolosa.

L’aspetto, i poteri e le mire di un vampiro dicono molto di chi l’ha immaginato e degli obiettivi del film che lo racconta. Il Dracula di Coppola per esempio era un raffinato, affascinante seduttore che si muoveva per una Londra impeccabile. Quello di Eggers è prevedibilmente molto differente, assai poco umano, una creatura del tutto demoniaca, riconosciuta dalla religione e dalla superstizione ma ignorata dalla moderna scienza. La modernità scambia un suo singolo potere (la pestilenza) per la sua stessa identità. Dietro la malattia che riporta la Germania illuminista al medioevo dei monatti si aggira indisturbato il male che tormenta la protagonista perché anela a farla sua.

Nosferatu racconta una vittima sacrificale senza passività

L’aspetto più riuscito del film è il rapporto tra mostro e fanciulla, tra demone e posseduta: Nosferatu è il racconto di una vittima non raccontata come tale, che a metà film si prende la responsabilità di quanto succede, l’onere di risolvere la situazione, la scelta volontaria di non subire la sorte di vittima, ma di abbracciarla. È un film confezionato su Lily-Rose Depp, poggiato sul suo delicato collo, sulle fragili spalle, la fronte nervosa e gli occhi enormi. Le viene richiesto uno spettro recitativo molto ampio: deve essere al contempo fanciulla fragile e virginale, amica affettuosa, creatura sensuale, dominatrice, corpo posseduto, amante carnale del marito e del demonio. A sorpresa, l'attrice ne esce abbastanza bene, ma non ci seduce da subito e soprattutto non ha la profondità necessaria a far viver su schermo l’eterno dubbio demoniaco: è possessione demoniaca vera oppure è psicosi clinica? Se poi si ha come riferimento la performance di Isabelle Adjani nel film di Herzog, la già emaciata Depp impallidisce fino a scomparire.

Chi invece ne esce alla grande è in primis Willem Defoe, nel suo ruolo prototipico. Attore molto amato da Eggers, è lui a portare un certo humour nel film, a sedurre e conquistare, a essere brillante e vivace anche quando l’atmosfera si fa mortifera. La vera sorpresa è però Aaron Taylor-Johnson, che brilla con un ruolo secondario che però ha molti punti in comune - non da ultimo la necrofilia - con quello di Depp. La sua presenza è così carismatica, la sua intepretazione così convincente che nella scena di confronto tra i due personaggi lui se la mangia viva.