Operazione U.N.C.L.E.

di Elisa Giudici
Pur avendo uno stile immediatamente riconoscibile, pur avendo girato piccoli cult e grandi successi commerciali che si rivedono sempre volentieri in tv, pur avendo lanciato e rilanciato le carriere di parecchi degli attori britannici più in voga, pur essendo uno dei pochi registi inglesi a collaborare con gli studios americani in progetti di grande ambizione, Guy Ritchie non viene spesso citato tra i primissimi nomi dei registi più amati del momento. Per quale motivo? Questo é l'interrogativo che mi ponevo all'uscita della sala dopo la proiezione di The Man from U.N.C.L.E, l'ennesimo lungometraggio sfavillante passato per le mani del regista.



In un ventennio di carriera il regista ha realizzato undici film e raramente ha fatto un passo falso. Quando si parla di regista d'azione inglese ci si riferisce a lui, con buona pace di Matthew Vaughn. Dopo vent'anni di tentativi e tentennamenti che hanno coinvolto grandi registi (compreso Tarantino) é stato affidato proprio a lui il compito di portare su grande schermo l'omonima serie tv cult made in MGM, risalente al 1964, partendo dall'unica sceneggiatura sopravvissuta a una marea di concorrenti rigettate negli anni. E l'unico appunto che si può fare al film é proprio di non essere all'altezza del prodotto medio di Ritchie.

Per una volta quindi il punto lo segna l'amico e collega Vaughn, che ha sorpreso e conquistato tutti con Kingsman: The Secret Service. Il film di Guy Ritchie é di qualche punto inferiore, ma questo non vuol dire che non sia una visione più che degna per chiudere un'estate costellata di film di spionaggio, nel caso in cui abbiate già recuperato l'acclamato ultimo capitolo di Mission: Impossible, in attesa di vedere se il padre putativo del genere, 007, riuscirà con SPECTRE ad essere la miglior uscita di un 2015 letteralmente sommerso dalle spie cinematografiche.



The Man from U.N.C.L.E condivide una certa allure glamour con i primi capitoli della saga di Bond, senza entrare appieno nell'autoironico territorio di Roger Moore. In una Berlino tagliata in due dal muro e da una guerra fredda pienamente palpabile, l'ex ladro riconvertito agente segreto Napoleon Solo (il Superman Henry Cavill, anche se per un lungo periodo é stato proprio Tom Cruise a figurare come protagonista) porta a termine la rocambolesca estrazione di Gaby Teller (la sempre più lanciata Alicia Vikander), figlia di un ex scienziato nazista misteriosamente scomparso nel nulla. Quando nel mistero spunta anche la potente e danarosa coppia dei Vinciguerra, americani e russi si trovano costretti ad unire le forze per evitare che una pericolosa testata nucleare finisca nelle mani sbagliate. Così Solo, Gaby e l'instabile agente del KGB Illya Kuryakin (Armie Hammer, di ritorno dopo l'impasse di The Lone Ranger) cominciano a lavorare sotto copertura nella splendida Roma della Dolce Vita, per avvicinare la femme fatale Victoria Vinciguerra (Elizabeth Debicki) e il marito Alexander (il nostro Luca Calvani) e salvare il mondo.

The Man from U.N.C.L.E. si rifà al Bond malizioso e sempre impeccabile dei primi film con Connery, riuscendo a coniugare l'atmosfera paranoica della guerra fredda, il fascino vintage degli anni '60 e lo stile ipermoderno di Guy Ritchie, che ancora una volta non delude nei segmenti d'azione, rendendoli iperdinamici e spesso sorprendenti.



Con l'eccezione di Henry Cavill, troppo bello per essere credibile come agente sotto copertura e troppo lento nel convincere lo spettatore di essere un ricercato ladro gentiluomo dalla battuta pronta, il cast é un dono del cielo: oltre ai cammei di tutto riguardo di Hugh Grant e Jared Harris, Alicia Vikander riesce ad essere un personaggio alla pari con l'irresistibile controparte maschile, il classico duo da battibecco fluido dei film di Ritchie. Complice un doppiaggio che non rende giustizia a Cavill, il confronto con Armie Hammer é impietoso. Merita una citazione anche la strabiliante performance della bellissima Elizabeth Debicki, scandalosamente sottoutilizzata da Hollywood dopo essere riuscita a farsi notare nel Gatsby di Luhrmann, pur comparendo in una manciata di scene. Anche qui tira fuori una perfomance da incorniciare, per di più strizzata in una serie di mise memorabili da matrona romana super sexy.

L'unica nota stonata del film é che Ritchie, forse per i vincoli più stringenti, forse perché assistito in fase di scrittura da Lionel Wigram, non riesce a padroneggiare pienamente la materia e finisce per confezionare uno splendido prequel a quella che sembra essere la materia succulenta del franchise. Un promo meraviglioso e incalzante, certo, ma specie dopo la chiusura é difficile non pensare che il meglio debba ancora venire. Scorrendo le uscite concomitanti e tenendo conto dei nomi coinvolti nel progetto, ad oggi risulta difficile immaginare un successo così travolgente da sbloccare immediatamente in casa Warner un secondo capitolo.