Outside: la recensione dell'horror zombie di Netflix

Un vero peccato: Outside ha una messa in scena valida ma una sceneggiatura lacunosa

di Chiara Poli

Ciò che dovreste sapere se volete vedere Outside su Netflix è che vi state accostando a uno “zombie movie” filippino della durata infinita di due ore e 22 minuti; che passano 10 minuti prima di udire una sola parola; e che quella parola non viene pronunciata da chi ci aspetteremmo.

Se avete letto fino a qui e volete proseguire, eccovi serviti.

La trama di Outside


Durante un’epidemia che trasforma le persone in killer spietati, immuni a qualsiasi ferita tranne i colpi alla testa, Francis (Sid Lucero) è alla guida di un veicolo che sembra uscito dritto dall’inferno. Con lui ci sono la moglie Iris (Beauty Gonzalez) e i due figli, Josh (Marco Masa) e Lucas (Aiden Tyler Patdu). Attraversando un Paese deserto, i quattro raggiungono la fattoria di famiglia di Francis, in cui l’uomo ha pensato di ripararsi per sfuggire alla minaccia dei mostri che si aggirano ovunque…

Un inizio suggestivo che si perde per strada


È vero, ho scritto che passano 10 minuti prima di udire una sola parola, ma non è un male. L’inizio in cui Francis (interpretato da un vincitore di premi in patria, che non è evidentemente all’altezza di questo ruolo) esplora una casa temendo che possa spuntare un mostro da un momento all’altro è carico di tensione. Purtroppo, quando il mostro che attendevamo spunta, le aspettative crollano.

Outside avrebbe potuto essere un gran film. Non lo è.

Cercando di evitare spoiler, ecco le ragioni. Primo: i mostri del film non sono esattamente zombie. Sono più insidiosi, o almeno così sembra. Peccato che a seconda delle necessità della sceneggiatura corrano o si muovano come i tradizionali mostri di Romero. Dipende da cosa serve al copione, insomma.

Secondo: Francis, in gara per il peggior padre della storia, viene a sua volta da una famiglia che definire “disfunzionale” non sarebbe abbastanza. Eppure, ha lo spessore psicologico di una piadina.

Terzo: oltre a essere di una lentezza esasperante - ed è un peccato perché la tensione dell’inizio lasciava ben sperare - la sceneggiatura ha il vizio di accennare a segreti ed eventi passati vari, forse credendo di incuriosire gli spettatori, senza poi effettivamente spiegarli (tranne uno), nonostante una durata di quasi due ore e mezza.

Quarto: il cast è terribile. Se la cavano giusto i due bambini. Con i loro nomi inglesi - segni della presenza americana sul territorio, che come sappiamo nelle Filippine seguì quella spagnola - i 4 protagonisti vivono con il disagio del costante scontro fra i due adulti, Francis e Iris. I figli Joshua e Lucas, comunque più maturi del padre che si comporta come un undicenne, ci guidano alla scoperta della verità. Basta un insulto e il fulcro narrativo appare chiaro.

La svolta narrativa: un’occasione persa


È a quel punto che la mia lista di critiche s’interrompe. Perché poco dopo quel momento, arriva la svolta narrativa. Quella geniale, pensi. Finalmente succede qualcosa e sebbene la svolta arrivi dopo oltre un’ora e mezza di film, sei pronto a perdonare. E invece no. Quella di Outside sarebbe potuta essere una storia originale, quella di un uomo che perde la ragione durante un’apocalisse zombie e segrega la sua famiglia (magari fino a farla morire e trasformare, per dirne una). Peccato che questa svolta, una cosa un po’ in stile Parasite per capirci, sia venuta in mente a me e non a Carlo Ledesma (Seguita), sceneggiatore e regista del film.

Perché in effetti c’è una svolta narrativa, e per un istante pare anche interessante, ma poi tutto si perde in quella piadina umana che passa dalla modalità “psicopatico traumatizzato” a “responsabile padre di famiglia” in un un battito di ciglia.

Qui manca totalmente l’approfondimento psicologico, e per averlo sarebbe stato sufficiente spiegare un qualcosina di più su quell’incubo del passato, del trattamento non paritario riservato ai figli (che poi la vittima replica a sua volta), di quella distanza precedente l’epidemia che poteva disgregare una famiglia.

Invece no, niente. Qualche frase sibillina, poi risolta in un insulto, e tutto il resto resta lì, sospeso, aperto alla nostra immaginazione. Incluso il finale.

La cura per le scenografie, i paesaggi spaziosi contrapposti alla claustrofobia di una casa che una volta doveva essere ricca e poi è caduta in disgrazia - un po’ come metafora del percorso di Francis - e la regia funzionano. Sono le ragioni per cui questo film non porta a casa un 3 o un 4 come voto. Peccato però che non sia sufficiente, sebbene io mi aspetti che qualcuno griderà al capolavoro. Pensando, magari, a una declinazione innovativa del genere zombie. Sì, poteva arrivare. Ma la base di partenza è sempre la sceneggiatura e questa è piena di incongruenze e lacune.

I personaggi funzionano solo quando le loro azioni ci raccontano - anche senza mostrarcelo - il loro passato, le loro idee, la loro formazione, il loro carattere. Pensate a Rick Grimes (ma anche a Glenn o un qualsiasi altro personaggio) delle gloriose prime stagioni di The Walking Dead e poi confrontatelo con Francis.

Il povero Francis ne uscirà a pezzi. E un po’ anche voi, pensando all’occasione sprecata.