Pacific Rim: La Rivolta

Di produzioni legate al binomio mostri/robottoni  ne abbiamo viste davvero tante, e il successo riscosso nel 2013 da Pacific Rim (qui il nostro articolo), ci aveva dimostrato come anche un blockbuster americano potesse regalare piacevoli emozioni, al netto di qualche piccola imperfezione e vuoti a livello narativo. Insomma, un perfetto capitolo autoconclusivo.

Guillermo Del Toro, però, aveva intenzione di dare un seguito alla sua creatura. Peccato che alcuni battibecchi tra Universal e Legendary, accompagnati in seguito dall’acquisizione finanziaria della seconda da parte della cinese Wanda Group, trascinarono il progetto nell’etere troppo a lungo, impedendo anche a vecchi membri del cast di poter prendere parte alla lavorazione di questo secondo capitolo. Un esempio lampante è Charlie Hunnam, assente per  i  suoi impegni con King Arthur: Legend of the Sword.

La regia passa da Del Toro a Steven DeKnight, mentre la lavorazione della sceneggiatura viene gestita a quattro da Emily Carmichael, Kira Snyder, T.S. Nowlin e lo stesso regista. Quattro anni di lavoro sul progetto hanno permesso a Pacific Rim: Uprising di portare a casa il risultato?

VIVERE NELL’OMBRA DI UN PADRE

Sono passati dieci anni da quando l’umanità è riuscita a chiudere la breccia. Dieci anni in cui la Terra è riuscita a vivere una pace duratura, ricostruendo tutto ciò che era stato brutalmente distrutto dai Kaiju. La mancanza di un nemico comune porta il progetto Jeager allo smantellamento, tant’è che l’accademia ne conta attivi solo quattro.

Molta della tecnologia jeager viene stoccata in magazzini abbandonati, luoghi perfetti per il proliferare di un mercato nero dedicato, tra cui spicca il nome di Jake Pentecost (John Boyega).

Il figlio di Stacker Pentecost/Idris Elba, già eroe della prima pellicola  piuttosto che ricalcare le orme del padre  preferisce dedicarsia una vita di frivolezze, fino a quando una serie di eventi rocamboleschi lo riconduce forzatamente all’accademia, seguito quasi a forza  dalla giovane Amara Namani (Cailee Spaeny). Entrambi senza una famiglia, entrambi senza un obbiettivo di vita.

Nel frattempo l’equilibrio viene spezzato da un attacco inaspettato, condotto da uno jeager sconosciuto contro la sede delle nazioni unite, durante la presentazione di un progetto volto a rendere i robot autonomi. I kaiju non possono fare ritorno, quindi cosa sta bollendo in pentola?

Per scoprirlo occorre seguire la pellicola nei suoi 111 minuti, dove vengono alternati numerosi momenti di dialogo a esili scene di combattimento, controvertendo quindi gli equilibri imposti dalla prima pellicola L’enfasi degli scontri tra i robottoni e gli alieni adattoidi è stata purtroppo annacquata nei meandri di una trama scontata e banalizzata scontati sentimentalismi tipici di una certa filmografia a stelle strisce da cui Del Toro si era tenuto ben lontano.

Nemmeno i siparietti tragicomici tra i due scienziati Geiszler e Gottlieb riescono a rimettere in carreggiata il film, che sembra invece cucito addosso alle tre new entry protagoniste della pellicola: Scott Eastwood, John Boyega e Cailee Spaeny.

I tre occupano praticamente tutta la scena, lasciandosi alle spalle personaggi bidimensionali, costruiti apposta per accompagnare, senza nemmeno dare un senso logico alla loro presenza. Certo, anche il primo Pacific Rim godeva di comparse degne di questo nome, ma il difetto veniva  offuscato da una serie di battaglie così belle da farti dimenticare tutto il resto.

L’OCCHIO HA LA SUA PARTE

Almeno tecnicamente il film è stato curato con effetti speciali pregevoli, capaci di riprodurre sulla scena tutti quegli effetti visivi necessari per rendere il film godibile alla vista.

Chiaramente la bellezza delle scene di combattimento deriva dal ring, che in questo caso vede come protagonista una tecnologica Tokyo alle prese con degli jeager intenzionati a distruggerla, ma bisogna ammettere che la maggior parte delle scene (anche quelle a rallentatore) regalano un buon feedback.

Anche il 3D non si comporta male, regalandoci un effetto stereoscopico piacevole capace di rendere più suggestiva l’esperienza in sala, spingendo soprattutto nelle scene dove ci sono eventi atmosferici di contorno o palazzi pronti per essere distrutti.

Gli Jeager sono stati disegnati molto bene, nonché personalizzati con criterio, se vogliamo, dato che ognuno di loro presenta una caratteristica unica.

Tirando le somme il film diretto da DeKnight ha il grosso difetto di concentrarsi sulle parole e sui drammi morali, piuttosto che spingere sui combattimenti ,vera anima del genere. Senza un buon livello di epicità in questo ultimo versante, il film si trova suo malgrado snaturato della sua essenza, trasformandosi in un ibrido insipido e mal riuscito.

Ed è un peccato, perché con la tecnologia odierna e il budget di 150 milioni a loro disposizione, poteva certamente venir fuori un prodotto diverso, in linea con quello che ti aspetteresti andando a vederlo in sala.