Parthenope, recensione: Sorrentino ha imparato a salvarsi da solo
No, Parthenope non è un grande film di Sorrentino, ma non è nemmeno un completo fallimento: Sorrentino ha imparato a contenere i danni, regalandoci comunque un po’ di grande bellezza.
Parthenope è l’antico nome della città di Napoli e quello della protagonista del nuovo film di Sorrentino. Assistiamo al suo parto nelle acque del mare e al suggerimento da parte del fantomatico Comandante del suo nome. È il 1950 e la piccola Parthenope nasce in una ricca famiglia napoletana con una splendida villa sul mare, il suo letto una carrozza “di Versailles” che il ricco proprietario di una compagnia di navigazione ha portato in dono.
Dopo Youth, Sorrentino torna a raccontare una storia da un punto di vista femminile, seguendo Parthenope (Celeste Dalla Porta) prima nella sua ultima estate da ragazzina a Capri - quella della prima volta, della scoperta del potere irresistibile della sua travolgente bellezza, delle suggestioni della recitazione e degli strani incontri con anime tristi e sole - poi in varie tappe della sua vita.
Parthenope racconta (ancora) cosa perdiamo quando diventiamo adulti
Come nel precedente È stata la mano di Dio, Parthenope è un racconto di perdita dell’innocenza, del disincanto triste che è l’età adulta. Come Fabietto, Parthenope gode di un’ultima estate bellissima, circondata dall’amore e dall’adorazione della sua famiglia, inconsapevole dei suoi privilegi di classe sociale e di genetica (il film insiste moltissimo sulla sua bellezza portentosa), ancora non toccata dal dolore. Come sottolineato da Gary Oldman, Sorrentino racconta la fretta dei giovani nel scrollarsi di dosso la gioventù, l’attraversarla distratta.
Un evento tragico ci catapulta negli anni successivi, in cui la bellezza di Parthenope è ancora “come la guerra, apre tutte le porte”, ma la scintilla nei suoi occhi è spenta. È diventata un personaggio sorrentiniano: sensibile, malinconica, rapita dal ricordo di qualcosa che non ha più, curiosa ma distaccata. Parthenope intraprende la carriera accademica e si costruisce una vita invero solitaria, incapace di risanare la rottura con la famiglia, il senso di perdita e il senso di colpa.
Un gioiello sorrentiniano senz'anima
A livello visivo e registico Parthenope è il solito gioiello sorrentiniano. Stavolta il film ha una precisa chiave cromatica: il colore arancione, sin dai titoli di testa, punteggia tutto il film e la vita della protagonista, sposandosi con la fotografia di Daria D'Antonio, che quasi ci fa sentire il calore e la salsedine sulla pelle.
Sorrentino ha un gusto raffinatissimo per la composizione delle immagini statica e la sua evoluzione in movimento. La sua cinepresa indugia con languore sulla bellezza della protagonista Dalla Porta, con un approccio vecchio stile, che trasuda desiderio, che prova a renderla irresistibile anche per noi. Altrettanta cura è come sempre spesa per catturare il sacro e il profano (il tesoro di Napoli, il miracolo del sangue di San Gennaro), l’altissimo e basissimo che convivono a Napoli.
A differenza di È stata la mano di Dio, il film più autobiografico del regista, il più personale e sentito, Parthenope è figlia del Sorrentino più colto, celebrale, distaccato. Somiglia per approccio a Youth e This Must Be the Place, che sono a oggi i titoli più fallimentari del regista. Nel frattempo però Sorrentino è maturato, ha imparato a tenere insieme i suoi progetti più a rischio di naufragio. Parthenope prove che ora c'è un equilibrio tra “sorrentinate” che funzionano (la scena con Lanzetta nei panni di Tesorone, vescovo di Napoli) e quelle che proprio no (buona parte dell’avvio, il figlio di Marotta).
Il problema principale di Parthenope sta nella scrittura molto celebrale, molto complessa, sempre a un passo dall’esistenzialista. Non ci sono passaggi con discorsi leggeri o quotidiani. La risposta tipo alla domanda- tormentone “cosa stai pensando?” è “stiamo qui a guardare l’estate”.
Prendiamo a esempio il cameo nobile di Gary Oldman nei panni dello scrittore John Cheever. Ci vuole tutta la sua monumentale capacità di trasmettere malinconia alcolica per far funzionare l’incredibile sequenza di frasi esistenzialiste che compongono il suo quasi monologo su bellezza, giovinezza, vecchiaia, arte, morte. Troppo, anche per un film di Sorrentino.
Spesso ciò che separa un grandissimo passaggio di scrittura da una sciocchezza dimenticabile è la qualità attoriale di chi la battuta la recita. Qui Gary Oldman, Silvio Orlando nei panni di un professore universitario burbero e il già citato Peppe Lanzetta in quelli del vescovo Tesorone portano a casa passaggi a rischio ostentazione vuota piuttosto alto. Non lo stesso si può dire del resto del cast, a partire proprio dalla giovane Dalla Porta. La sua incredibile bellezza non cancella la difficoltà con cui prova a recitare in maniera realistica e sentita dalle frasi così esistenzialiste e altisonanti da fare subito il giro e rendere il film quasi una farsa. Lo stesso si può dire per una bella fetta di cast.
Parthenope dunque rispolvera un vecchio vizio mai del tutto superato da Sorrentino: investire il suo tempo e le sue energie nel portare su schermo le scene che ha immaginato, senza chiedersi prima se valesse la pena di trasporle tutte, rivedendo l’economia di una storia tutta incentrata sulla straordinarietà molto chiacchierata ma poco esibita, provata. Le risposte pronte e argute di Celeste sono così abbozzate dall’interprete che risulta difficile capire lo stupore dei personaggi rispetto alla sua intelligenza.