Pinocchio di Guillermo del Toro, recensione: quasi un capolavoro
C’è tutto il meglio di del Toro nel Pinocchio nato dalla sua fantasia e dai capitali Netflix. Ritroviamo soprattutto il Del Toro degli inizi della carriera, ben più oscuro, brillante e ispirato di quello addolcito e diluito da Hollywood nelle sue prove più recenti. Non è del tutto una sorpresa: è da quando i media e il pubblico s’interessano alla sua opera che il regista messicano dichiara che il suo sogno è proprio quello di realizzare una versione profondamente personale e antifascistadella storia del burattino di Collodi, di cui è palesemente un lettore e profondo conoscitore. Pinocchio di Guillermo del Toro dunque è il classico film di una vita, macerato per decenni nella mente e nel cuore di un cineasta di forte personalità. Un progetto cresciuto pian piano, per decenni, nutrito da quella che il suo stesso creatore pensava fosse una fantasia irrealizzabile.
Pinocchio è il meglio del vecchio e nuovo Del Toro
C’è il meglio del vecchio e del nuovo Del Toro qui distillato. Visivamente e a livello narrativo il padrone è il regista di Il labirinto del fauno e La spina del diavolo, la sua spiccata visione orrorifica, con un forte influsso delle sue radici messicane. Questo Pinocchio non è un crogiolo di buoni sentimenti e incrollabile bontà paterna, anzi. Nelle sue scene più riuscite è una vivida fantasia infernale, in cui il burattino di legno diventa novello mostro di Frankestein, messo insieme in una notte tempestosa da un Geppetto ubriaco e collerico. Sulla prima parte del film infatti c’è l’ombra della morte del suo piccolo Carlo, un bimbo d’oro ucciso per errore da un bombardamento durante la Prima guerra mondiale. Una morte dolorosa, resa ancor più straziante dalla futilità dei motivi che l’hanno causata. La scelta di rendere Geppetto padre, già vista quest’anno nel (tremendo) Pinocchio di Zemeckis, paga molto e dà nuova linfa a tutto il racconto. Ci regala un’avvio emotivamente dolcissimo della vita semplice e appagante di un anziano padre e del suo piccolo e poi costringe Geppetto a fare i conti con il fatto che, per quanto speciale, Pinocchio non sarà mai il suo Carlo, pur potendo diventare il suo nuovo figlio.
Del Toro infatti da sempre ha specificato come, per rendere omaggio all’italianità dell’autore della storia, il film non si sarebbe svolto non in una dimensione atemporale e indefinita, bensì nell’Italia a cavallo tra Prima e Seconda guerra mondiale. È evidente l’urgenza dell’autore di trasformare un classico racconto di disobbedienza giovanile (Pinocchio che puntualmente disattende le direttive del Grillo parlante e del babbo) in una riflessione profonda e anarchica sul valore stesso di non seguire i dettami che arrivano dall’altro. Siano quelli paterni o quelli patriottici di una nazione che chiede ai suoi figli di immolarsi al fronte. Pinocchio infatti ha come temi portanti alcune delle questioni più umane e più alte di tutte, che trovano radici nei rapporti familiari, sociali e persino nel divino.
Cosa cambia (in meglio) nel nuovo Pinocchio di Del Toro
La storia è di fiera radice collodiana e profondamente radicata in Italia. Geppetto è un bravo padre, stimato e amorevole, che sta intagliando un crocifisso per la chiesetta di un paese piemontese tra le Alpi quando perde il figlio. Non lavora, non mangia, non vive più: passa il suo tempo sulla tomba di Carlo, rimpiangendo il figlio, perde il rispetto dei concittadini e del parroco, che vedono solo la sua frattura e le sue mancanze in un momento storico in cui al paese è chiesta forza, virilità, ardore e ovviamente obbedienza. Geppetto forgia un burattino che prende vita per merito di una creatura misteriosa e dall’aria mistica, punto di accesso a un aldilà che ha molto di messicano. Pinocchio è un film che - incredibilmente - parla tantissimo di morte, dipingendola come una parte della vita, un valore intrinseco dell’essere umano. Pinocchio invece non appartiene né alla vita né alla morte: non è un bambino vero ed è un essere immortale, che può passare dalla morte infinite volte. Soprattutto, non è mai ciò che gli altri si aspettano da lui: non è il rimpiazzo di Carlo che Geppetto desiderava, non è un bravo Balilla che sostenga la nazione e il Duce. In lui c’è il vero spirito del burattino collodiano, al contempo Gianburrasca impenitente e cuore puro, disinteressato al denaro e al proprio intesse.
Molte parti della storia originale vengono omesse, tradite, rielaborate; un approccio non troppo canonico, che molto giova al burattino, che era mancato nelle ultime trasposizioni italiane, sin troppo fedeli. Curiosamente questo Pinocchio compie due scelte molto importanti (il figlio morto di Geppetto e la condizione finale del corpo di Pinocchio) identiche a quello animato diretto da Robert Zemeckis, che lo ha preceduto di qualche mese su Disney+. Tuttavia tanto quel film era poco ispirato e brutto a vedersi, tanto questo è una meraviglia visiva di grande potenza narrativa. Con la sua stop motion eccellente e la bellissima regia ideata da Del Toro questo Pinocchi osa tanto, tantissimo, fino a scherzare con il Duce e con i santi. È un film per bambini e per adulti, ma anche per pensatori, che si spinge fin nel teologico. Il Cristo in croce che intaglia Geppetto diventerà un Pinocchio crocifisso per salvare i peccati altrui. Nella scena più memorabile e coraggiosa del film Pinocchio si chiede, turbato, perché le persone ce l’abbiano tanto con lui, solo perché è fatto di legno, mentre cantano e pregano per quella persona sulla croce, che è fatta dello stesso materiale.
Pinocchio è un film d’animazione splendidamente eseguito, ma sopratutto uno splendido film, che porta il cinema ad esprimersi alla sua massima potenza: quella capace di parlare al più piccini e ai grandi di cose piccolissime e grandi. Come spesso accade nei film di Del Toro, le grandi avventure iniziano quando “le persone piccole e dimenticate” esercitano il potere della disobbedienza senza perdere quello della gentilezza.