Io sono l’amore gay: più che il sesso, la droga e Daniel Craig, in Queer c’è Luca Guadagnino
Luca Guadagnino realizza il sogno di portare su schermo il romanzo autobiografico di Burroughs con un film più personale del precedente Challengers: il risultato è forte, carismatico, che non lascia indifferenti quando fa centro e quando sbaglia.
Chi siamo quando siamo soli a letto, in un letto in cui vorremmo ci fosse qualcuno? Come ci cambia la presenza di una persona amata, che ci ama o che si limita a lasciarsi amare? È a queste domande sull’amore che tenta di rispondere il regista italiano vivente più innamorato di questo sentimento, più impegnato a raccontarlo attraverso il desiderio, i corpi.
In passato Guadagnino realizzò un film intitolato Io sono l’amore, che lo rese celebre tra la critica internazionale, prima del successo planetario di Chiamami col tuo nome. Queer, da titolo, potrebbe essere l’aggiornamento: io sono l’amore gay, una vertiginosa esplorazione di una città più mentale che reale in cui si muove un uomo queer affamato di relazioni, allo sbando e nello sballo più completo. Quest’uomo ha tre identità oltre quella del personaggio William Lee: è l’alter ego dello scrittore del romanzo da cui è tratto il film William S. Burroughs, è il ruolo che consente a Daniel Craig di dimostrarsi attore in grado di affrontare tutte le sfide che le star conclamate come lui di solito rifuggono ed è l’avatar attraverso cui Luca Guadagnino torna a fare un film molto personale.
Queer è uno dei film più personali di Luca Guadagnino
Non che Challengers o Chiamami col tuo nome non siano progetti in cui è evidente il gusto e il carisma del loro creatore. Anzi. Guadagnino è un cineasta che si affida volentieri a scrittori, che fa progetti su commissione a cui è interessato perché gli danno la possibilità di provare qualcosa di nuovo, di portare su schermo una narrazione a cui è interessato, di lavorare con un certo tipo d’interpreti, da cui però rimane in ultima istanza divertitamente distaccato. Al contrario i film a cui è emotivamente legato, in cui è personalmente coinvolto, li si riconosce proprio dal fatto che sono meno accomodanti, meno mediati. In questi titoli è palpabile l’urgenza di esprimersi con il proprio linguaggio artistico, con i propri collaboratori, con il proprio immaginario visivo.
In Suspiria vedevamo la protagonista aprirsi il petto, mostrare il proprio cuore palpitante. In Queer i due protagonisti affrontano un viaggio nella giungla dell’Ecuador che li porterà a consumare una sostanza allucinogeva che farà loro sputare il cuore del petto, letteralmente. Una visione dell’amore in ogni sua forma, che è presente quando l’amato è assente e fa più male quando, vicini, non si riesce a trovare la dimensione per starsi accanto.
Sceneggiato da Justin Kuritzkes (già autore dello script di Challengers), Queer è la tragedia di due uomini che si amano in modo profondamente differente. William Lee (Daniel Craig) è così rapito dal giovane Eugene Allerton (Drew Starkey) che il suo desiderio si manifesta più volte nello spettro di una mano che lo sfiora e lo accarezza, quando Lee sa di doversi trattenere perché verrà respinto. Eugene infatti è un pesce “freddo, sgusciante, difficile da catturare”. Lee lo incontra nel bar Ship Ahoy di una Messico City che, come tutto in Queer, sta soprattutto nella testa di Lee.
L’amore non lo salva, non lo rimette in carreggiata dopo averlo portato allo sbando come i protagonisti i Challengers. Anche lì, a ben vedere, due persone innamorate dovevano rinegoziare la loro relazione alla luce dell’ingresso in scena di un’altra persona da amare. In Queer però Lee è già alla deriva ancor prima di incontrare Eugene: è l’alter ego degli anni bui di William S. Burroughs, di tanti statunitensi che negli anni ‘50 fuggivano in Messico per poter coltivare la propria dipendenza da oppiacei senza venire arrestati, per poter intessere relazioni omosessuali.
La tragedia di quando ci si ama in modo profondamente differente
Lee va a caccia di storie brevi, capaci appena di scaldare le lenzuola, fino a quando rimane folgorato da Eugene: un ragazzo pettinato, pulito, perennemente sul punto di rivelare qualcosa su sé stesso senza mai farlo. “È queer?” diventa il grande tormento(ne) degli altri personaggi che invece la loro omosessualità la esibiscono con spregiudicatezza. Lee riesce ad avvicinarlo, riesce finalmente a toccarlo, ma la solitudine sembra aumentare, perché Eugene rimane, in ultima instanza, inconoscibile. Disponibile e poi distante, partecipe e poi infastidito.
Da qui il tour nella giungla, nel secondo capitolo di un film che da solitario reportage del cruising di un uomo in overdose di droghe diventa l’avventura magica di un uomo in overdose d’amore non ricambiata. Una botanica americana pazza nel cuore della giungla diventa la sua ossessione, insieme allo yage, droga sciamanica che si dice renda telepatici. “Con chi cerchi di comunicare così disperatamente?” gli chiede un personaggio. Lee la domande esplicita a Eugene su se possa amarlo non la fa mai, spaventato dalla risposta.
Eugene dal canto suo non lo giudica nei suoi bassi tossici, ma si ritrae quando sente la sua indipendenza in pericolo. Eppure accetta di seguirlo in un tour dell’America latina, con la promessa di “essere gentile con Lee” due volte a settimana. Preferisce una forma dolce di prostituzione con un biglietto di ritorno sempre pronto in tasca che chiedersi davvero e fino in fondo dove possa condurre quella porta che il tocco di Lee ha aperto.
Queer è un film di mani e piedi
Non potendo esplorare a parole la distanza tra chi ama (Lee) e chi si lascia amare (Eugene), Guadagnino percorre la via di Bunuel, di Fellini, di Pressburger & Powell: la dimensione onirica, la visionarietà a cavallo tra realismo magico e psicoanalisi. Queer è un film fatto di piedi e mani. I piedi di Lee che entrano in stanze luride e solitarie, che lo fanno precipitare dalle stelle alla spiaggia. Di mani fantasma che appaiono in un cinema oscuro mentre scorre su grande schermo l’Orfeo di Jean Cocteau, che con un solo movimento di camera, una zoomata verso lo schermo dall’ultima fila dove sono seduti i protagonisti, Guadagnino riesce a rendere metafora della vertigine dell’abbracciare la propria diversità, la propria queerness.
Una dimensione così visionaria in Guadagnino si era vista forse solo nel finale di Suspiria. Il resto invece è ormai parte del suo tessuto cinematografico: la danza contemporanea come espressione del sentirsi, finalmente, uno nella pelle dell’altro (We are who we are), i titoli composti da oggetti casuali che costellano il film (Chiamami col tuo nome), un movimento di cinepresa che fotografa l’avance di un uomo che ne desidera un altro (Challengers), il primo piano di una stella di David che riassume l’identità di un ragazzo (Io sono l’amore, Chiamami col tuo nome).
La grammatica del cinema di Guadagnino è già tutta declinata, ormai capace di citare il suo passato oltre che anticipare il suo futuro. A differenza di altri registi che quando parlano dei propri sentimenti danno il meglio di sé, quando la partecipazione di Guadagnino annulla il suo distacco dalla narrazione, le sbavature sono più evidenti. Il finale in particolare perde di mordente, l’intero epilogo del film smorza la potenza di quanto fatto prima. Nell’avvio invece si gira un po’ a vuoto, manca una dimensione narrativa organica, complice forse il taglio importante di minutaggio operato all’ultimo dallo stesso regista (che avrebbe smorzato la scandalosità delle scene di sesso).
Queer colpisce più col dolore che con il sesso
Parliamo di scandali dunque, delle tanto chiacchierate scene di sesso gay. Ci sono, sono esplicite, è impossibile fraintendere cosa venga tastato, succhiato, penetrato, cosa bagni le labbra e le lenzuola dei protagonista e del suo riluttante amante. La potenza del film però non sta in amplessi insoddisfacenti per il suo protagonista, che non ci trova mai dentro ciò che vuole, per molte ragioni. Queer commuove e turba quando mette in primo piano l’espressione sofferente di un Daniel Craig che ancora una volta si dona completamente al regista e alla causa. Il suo innamoramento inarrestabile che lo fa straparlare e ingelosire, drogare e supplicare e toccare e farsi indietro e poi avanti di nuovo è la vera anima di Queer.
Altrettanto potenti seppur fugacissime sono le uniche due scene in cui Eugene sembra agire sulla base di un sentimento personale e non di un riflesso: una foto scattata, un polpaccio che si muove a portare conforto. Queer è la tragedia di questo inizio abortito che di qualcosa che poteva essere di più ma che solo una parte della coppia voleva esplorare.