Recensione C'è Tempo

Stefano Fresi e l'esordiente Giovanni Fuoco raccontano la bellezza del riscoprire se stessi attraverso "l'altro"

Quando si smette di essere bambini?”  chiede il piccolo tredicenne “nano alto” Giovanni (Giovanni Fuoco) al fratellone da poco conosciuto, Stefano (Fresi) . E’ questa una delle domande che il film “C’è tempo”, esordio alla regia di “finzione” (dopo numerosi documentari) di Walter Veltroni, passato dalla politica attiva all’impegno civile, anche attraverso i suoi lavori cinematografici.

Prodotto da Palomar e Vision Distribution (con la collaborazione di Pathè e SkyCinema) il film racconta la storia sgangherata e romantica di un incontro tra due fratelli di stesso padre che non sanno l’uno dell’esistenza dell’altro fino alla scomparsa dei genitori del piccolo. Messi insieme da un testamento, sono “costretti” a condividere lo spazio ristretto di una decapottabile, su cui macinano chilometri, che sembrano necessari al viaggio interiore che ognuno di loro deve necessariamente compiere.


Stefano è un over 40 precario, sostanzialmente immaturo e poco incline agli impegni familiari. Ha una moglie con cui è fuggito da Roma per andare a vivere in un paesino di 207 anime (Viganella) in cui la luce arriva solo grazie ad un grande specchio posto su un colle (storia vera) , di cui Stefano, che di lavoro fa l’”osservatore di arcobaleni” è il custode. Raggiunto da una “notaia” proprio in cima al colle, scopre di avere un fratello “di padre”, quel padre di cui non conosce nemmeno il nome e che non ha mai incontrato.

Ed è così, per un motivo poco nobile (una cifra riconosciutagli per fare il tutore) che il fratellone decide di occuparsi del fratellino: diversi e lontani per molti versi, per età, estrazione sociale, mentalità, sono legati dal filo elicoidale del DNA, in cui però faticano a riconoscersi. Un road movie che scorre sui sentimenti, quelli buoni. Dell’ascolto, del “guardarsi dentro” e dell’accogliere “l’altro da sé”, ricco di citazioni: sono più di cinquanta quelle che Veltroni, appassionato di cinema dalla tenera età, mette in scena.

Da Ettore Scola e Mastroianni a Novecento di Bertolucci, passando da quelle meno evidenti della padella de La grande Guerra (Mario Monicelli), al nome della notaia di Miracolo a Milano (Vittorio De Sica), alla pistola rossa di Dilinger è morto di Marco Ferreri e molto altro.


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Una commedia in cui i legami umani sono al centro di tutto, come l’amicizia di Stefano e Giovanni con Simoma (Molinari, ndr, cantautrice qui al debutto attoriale) e Francesca (Zezza, anche lei al debutto assoluto), madre e figlia con cui formano una “famiglia” temporanea piena di luce e leggerezza. Il film, scritto da Veltroni con Doriana Leondeff, è impreziosito dalla fotografia calda e avvolgente di Davide Manca.

Grande ruolo quello della musica, a partire dal titolo,  C’è tempo, una canzone di Ivano Fossati a cui Veltroni è molto legato, per arrivare ad un inedito di Lucio Dalla “Almeno pensami” , “Parlami” di Simona Molinari “Sempre lo stesso sempre diverso”de Lo Stato Sociale, passando dalla musica strumentale di Danilo Rea.

Divertente il siparietto di Max Tortora e Giovanni Benincasa, azzeccata la presenza di Laura Ephrikian (di cui Veltroni ha visto tutti i film, da ragazzino, come Giovanni del film) e Sergio Pierattini. Su tutti spicca, a parte il sempre naturale Stefano Fresi, l’esordiente Giovanni Fuoco.  La chicca è la scena con Jean-Pierre Leaud nei panni di se stesso, attore feticcio di Francois Truffaut (il bambino de I 400 colpi, amato dal giovane protagonista).

Veltroni è riuscito a proporre un film con alte citazioni ma rivolto al grande pubblico, perché passeggia tra il grande cinema e gli anni 80, tra autori impegnati e canzonette. Un film per tutti, godibile e pieno di tenerezza.


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