Recensione Captive State
Gli alieni sono arrivati e governano la Terra
Gli alieni sono sbarcati sulla Terra, ma questo non fa più notizia. Sono infatti passati 9 anni da quando è avvenuto il primo contatto con una specie extraterrestre e si può ben dire che sin da subito la situazione non è stata particolarmente a favore del genere umano. Infatti gli alieni di Captive State - con le loro enormi astronavi e le loro pericolosissime abilità da mutaforma - hanno ben presto costretto l’umanità alla resa. Niente assedio prolungato, niente resistenza eroica dei terrestri: in uno schiocco di dita la Casa Bianca e il resto delle amministrazioni mondiali ha sollevato bandiera bianca.
Stavolta però gli obiettivi dei Legislatori (così si fanno chiamare) sono più indecifrabili che mai. Dopo aver preso possesso dei maggiori centri urbani del mondo e dopo averne negato l’accesso ai terrestri, gli alieni hanno radunato intorno a sé le élite del pianeta, impiegando buona parte del resto della popolazione in attività estrattive e di scavo. Le loro grandi capitali sono sorte sottoterra, al riparo da sguardi indiscreti e gli alieni stessi si vedono raramente in carne e ossa…o di qualsiasi materia organica siano fatti. Il giovane Gabriel (Ashton Sanders) può giusto osservare il porto di Chicago, da cui partono ogni giorno navi spaziali dirette chissà dove, spesso con un carico di umani a bordo.
La costruzione della trama di Captive State è così lenta e metodica che talvolta si dubita che ci sia una componente thriller o una tensione fantascientifica, o persino un senso nell’intero film. La strada è ancora una volta quella aperta e percorsa da District 9: il contesto urbano statunitense in cui si muove la fantomatica, sparuta resistenza della Fenice è brullo, privo di colore, a un passo dal ghetto.
Impotenti di fronte agli alieni, gli umani si ritrovano ancora una volta divisi tra ricchissimi e poverissimi: il discrimine è l’accesso alle misteriose città sotterranee, la benevolenza accordata dagli alieni. Il controllo della criminalità è effettuato tramite una sorta di larva-chip dentro il collo, che permette di tracciare la posizione di ogni singolo essere umano e di ascoltarne le conversazioni.
Quella scritta e diretta da Rupert Wyatt (L’alba del pianeta delle scimmie) è una lenta apocalisse che con il blockbuster estivo ha in comune la sensazione che per l’umanità non ci sia nulla da fare e con District 9 la strisciante metafora del presente e della discriminazione e segregazione razziale. Man mano che seguiamo Gabriel e il detective William Mulligan (John Goodman) all’interno dell’ultima organizzazione terrestre decisa a opporsi ai Legislatori, il fine del film appare chiaro, il colpo di scena un po’ prevedibile.