Recensione Highwaymen - L'ultima imboscata

Kevin Costner e Woody Harrelson a caccia di Bonnie & Clyde.

Da molti anni, a Hollywood, un solo nome mette sempre d’accordo gli addetti ai lavori in cerca di un regista ‘classico’ cui affidare biopic o pellicole tratte da vicende autentiche della storia americana. Quel nome è John Lee Hancock. A partire dai suoi esordi negli anni ’90 – è suo lo script di Un mondo perfetto, 17/a splendida regia di Clint Eastwood arrivata dopo Gli spietati – Hancock ha sempre raccontato gli Stati Uniti della perseveranza (The founder), dell’eroismo (The Alamo), del riscatto (The blind side) e della meraviglia (Saving Mr.Banks).

Highwaymen – L’ultima imboscata racconta, invece, l’America della legge e del dovere e lo fa narrando la storia dei Texas Ranger che trovarono e fermarono Bonnie e Clyde, i giovani banditi, amati e idolatrati dall’opinione pubblica, che sconvolsero gli Stati Uniti dei primi anni ’30 attraverso una lunga serie di rapine e omicidi. Una vicenda, la loro, già portata più volte sullo schermo (Gangster story, di Arthur Penn) e che Hancock decide – saggiamente – di affrontare solo di striscio, preferendo invece concentrarsi sulle figure dei poliziotti che si misero sulle loro tracce.


Siamo nel 1934 e le azioni criminali di Bonnie Parker e Clyde Barrow imperversano: la governatrice del Texas Miriam Ferguson (Kathy Bates), esasperata, decide di richiamare in servizio il Texas Ranger Frank Hamer (Kevin Costner) perché trovi ed elimini i due criminali una volta per tutte. Hamer è ‘un ferrovecchio’, un ranger quasi in pensione che è stato sostituito dai più giovani e specializzati agenti dell’Hooveriana FBI, ma ha fiuto e una mira (quasi) infallibile.

Insieme a lui torna in servizio il suo vecchio compare Maney Gault (Woody Harrelson), con il quale Hamer condivide un passato in prima linea e alcuni dolorosi ricordi della vita da ranger. Inutile dire che la coppia di ‘anziani’ si rivelerà molto più efficace del resto del Bureau nell’individuare le tracce dei due giovani latitanti e nel mettere in atto ‘l’ultima imboscata’ ai loro danni.

Distribuito su Netflix a partire dal 29 marzo, Highwaymen è un film discontinuo: se da un lato offre una rappresentazione storica solida e a tratti anche cruda (la sparatoria finale appare ben poco ‘hollywoodiana’, Bonnie e Clyde non vengono mai inquadrati per quasi tutto il film, come se fossero dei fantasmi o addirittura l’incarnazione stessa di un male senza volto), dall’altro non riesce quasi mai a sollevarsi dai canoni del pregevole film televisivo, girato senza troppi guizzi o sfumature.


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Non che manchino i momenti godibili: scenografia e fotografia, puntellate dalle belle musiche di Thomas Newman (molto simili, a dire il vero, a quelle di Era mio padre) riescono nell’intento di ricostruire fedelmente gli anni ’30 della grande depressione e Costner e Harrelson, scelti dopo vari cambiamenti subiti dal progetto (doveva essere girato nel 2005 con Paul Newman e Robert Redford) sono una meravigliosa coppia di detective stagionati, sebbene abbastanza stereotipati - ombroso il primo, ciarliero il secondo.

Costner, in particolare, sembra intenzionato e rifare il percorso di Clint Eastwood attore, con prove sempre di più all’insegna del minimalismo e della sottrazione. Il suo Frank Hamer è un poliziotto di poche parole (‘Sei di buon umore?’, chiede Hamer a Gault per verificare se ha bevuto) che crede solo nel rispetto della legge, costi quel che costi, e il silenzio col quale guarda l’orizzonte mentre il suo compare racconta un doloroso episodio del loro passato di ranger sembra raccontare del suo personaggio molto di più di mille spiegoni – che pure non mancano, sempre per tornare ai difetti della pellicola.

Cosa resta, quindi di Highwaymen? Una coppia di protagonisti che vorremmo vedere sempe più spesso sullo schermo e una storia che, se avesse pigiato un po’ meno sul pedale della retorica, probabilmente ci avrebbe conquistato maggiormente. Così com’è, invece, rimane il classico prodotto Netflix.