Recensione L'angelo del crimine

L'angelo nero dell'Argentina: bello, letale e queer.

di Elisa Giudici

Forse solo una nazione è cinematograficamente più interessata (quasi ossessionata) dell’Italia dalla sua storia nera, dai suoi demoni da prima pagina, dalle sue storie di criminalità divenute leggenda. Quella nazione è l’Argentina: da El Clan ad Acusada, la sua cinematografia almeno una volta l’anno riflette sul suo passato burrascoso e sul suo presente complesso, attraverso la mano violenta della propria storia.

Nel 2018 nella sezione Un Certain Regard a Cannes si è fatta notare  una pellicola con al centro una delle storie più torbide in assoluto della geografia mondiale dei serial killer. Il protagonista della vicenda aveva solo 19 anni quando venne arrestato, dopo una lunga scia di rapine e di morti che aveva sconvolto l’intero paese. La nazione rimase ancor più scossa di fronte al volto rinascimentale e finemente cesellato del ragazzo, accusato di almeno una quarantina di rapine e una decina di omicidi, alcuni riguardanti le forze dell’ordine, altri membri della sua banda. Nacque in quegli anni burrascosi il mito dell’Angelo Nero: Carlos Robledo Puch.

Data la distanza ravvicinata con cui i due film approdano al cinema, L’angelo del crimine (El Angel) diventa uno schiaffo morale a Hollywood e a Zac Efron, protagonista di Ted Bundy - Il fascino del crimine. Entrambi i film tentano di raccontare la persona dietro il mito criminale, ma il film argentino supera e distanza l’omologo statunitense ad ampie falcate, rendendo il confronto imbarazzante sotto ogni punto di vista.


A partire dall’interprete - il giovanissimo, magnetico Lorenzo Ferro - El Angel azzecca ogni singola scelta, costruendo un film ricco d’atmosfera e ritmo, dall’estetica sopraffina ma senza per questo assolvere o esaltare l’azione criminale del protagonista.

Ferro ha il fascino di un putto, uno sguardo magnetico e l’allure androgina capace di incantare tutti, dentro e fuori lo schermo. Se cattura tanto l’attenzione è anche perché intorno a lui sfilano alcuni dei più grandi attori sudamericani, interprellati anche per parti molto risicate (vedi il superbo Luis Gnecco nei panni del padre del ragazzo).

La sceneggiatura trova una quadra tra scrittura biografica, fascino cinematografico e messaggio politico. C’è di certo il gusto per un certo cinema criminale, ma la costruzione del personaggio porta in sé una riflessione sottile ma incisiva sugli anni ’70 in Argentina. Carlitos può agire indisturbato perché la polizia è facilmente corruttibile e ossessionata dalla repressione del dissenso politico, dimentica del crimine "comune".


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In questo senso il film restituisce perfettamente il clima d’impunità di certi regimi sudamericani, ricordando l’andamento similare del bellissimo Tony Manero di Pablo Larraín. Dimostra però una forte sensibilità contemporanea, raccontando il lato queer del suo protagonista, che ai tempi rese ancora più scandalosa l'intera vicenda. Qui Carlitos viene immortalato come un ragazzo “naturalmente predisposto” al furto, immune dal concetto di proprietà. Se non si sottrae mai dalla possibilità di rubare qualcosa, non dimostra nemmeno di farlo con avidità o per soldi, ma semplicemente perché per lui ogni cosa appartiene a chi può allungare la mano e prenderla.

Il suo incontro fatale con una famiglia criminale esaspera questo suo animo libero da costrizioni (in primis mentali), suggerendo una forma di distacco via via più grave, in chiaro territorio psichiatrico. Tutto collassa quando all’amore per il crimine si unisce l’amore per un altro uomo, consumato in occhiate fortuite e risposte sprezzanti, tra genitori incapaci di capirlo e criminali pronti a fregarlo.

A tutto ciò si unisce una regia splendida, con un gusto estetico preciso, un grande senso del ritmo e la capacità di restituire alla perfezione il fascino irresistibile del suo protagonista.


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