Recensione La Bambola Assassina
Finalmente un horror più intelligente che sanguinolento
Anche se “La Bambola Assassina” può essere considerato un horror estivo, con tutto il carico di banalità che portano in dote questa specifica categoria di horror, ha comunque il merito di non essere un film così scontato e, soprattutto, cerca di prendere in qualche modo le distanze dal titolo originale. Quello di Lars Klevberg è un prodotto che prende spunto dall’idea germinale della saga (targato 1988 per la regia di Tom Holland), riuscendo a portare la vicenda in epoca moderna. Non solo perché ora Chucky (questo il nome della bambola) è anche un sistema di smart home a tutti gli effetti grazie al quale è possibile accedere a tutti i servizi domestici “connessi”, ma anche perché è dotato di una Intelligenza artificiale capace di apprendere dal mondo circostante. Ed è qui che nasce il problema.
Se nel film del 1988 l’origine dei misfatti della bambola malefica era legata all’anima di un serial killer trasferitasi nel corpo di plastica di Chucky, ora il flusso di malvagità è insita nella tecnologia e nello stesso animo umano. Ed è qui il primo colpo di genio di Klevberg, che sostituisce l’anima malata del serial killer con quella oppressa, sfruttata e sottopagata di un tecnico vietnamita che all’ennesima umiliazione da parte del suo responsabile decide di eliminare ogni controllo di protezione dal software di Buddi. Ed è così che la bambola dotata di autoapprendimento arriva nella più classiche delle famiglie disfunzionali americane. Pochi soldi, padre totalmente assente, madre costretta a doppi turni e figlio asociale e con le solite amicizie borderline.
Ed è qui che Chucky (il bambolotto si “autonomina” così per creare una connessione con la serie originale), apprende quanto di più sbagliato possa esserci nella società moderna. Messo di fronte a film horror, a discorsi di cui non riesce a cogliere l’ironia o le iperboli, la bambola assimila, interpreta e traduce nel suo codice binario. C’è un ostacolo di fronte alla felicità del bambino di cui è diventato il migliore amico? Lo si elimina. Punto.
C’è quindi anche una punta di denuncia sociale in un film che dovrebbe semplicemente cercare di regalare qualche brivido. La versione senza filtri di Chucky è così paragonata a quella di un normale bambino che lasciato semplicemente a osservare il quotidiano comportamento degli adulti e davanti a mezzi che “vomitano” di continuo contenuti non adatti a lui, assorbe e riproduce senza avere i mezzi per poter discernere quanto di sbagliato possa esserci nel suo comportamento. Del resto, Chucky è una bambola: a chi mai verrebbe in mente di “educare” un giocattolo di pezza, plastica e silicio?
Messa da parte la componente sociologica, quella più orrorifica de “La bambola assassina” è piuttosto blanda, senza particolari picchi in termini splatter ma, al contrario, condita con un sottile humor citazionistico davvero ben riuscito. Chucky canta una canzone che riprende un pò il tema di Toy Story, una delle vittime, per esempio, viene privata della faccia esattamente come visto in “non aprite quella porta”, oppure un “Vivo o morto tu verrai con me”, che riprende la celebre battuta di Robocop che arriva a stemperare un conflitto finale che, logicamente, non porta ad una vera e propria morte di Chucky, quanto piuttosto all’inizio di una propagazione del codice “malato” su tutti gli altri giocattoli della casa produttrice. Del resto, se il male scorre liberamente nel nostro essere, perché ma non potrebbe essere capace di diffondersi come un normale virus informatico?