Recensione Rambo: Last Blood

Il congedo dell'eroe.

di Roberto Vicario

Era il 1982 e con Rambo: First Blood Sylvester “Sly” Stallone portava sul grande schermo uno di quei personaggi che si sono legati a doppia mandata alla sua figura di attore. Il reduce del Vietnam è, ancora oggi, uno di quei personaggi entrati nell’immaginario della cinematografia, icona di un modo di fare film (anche in senso strettamente patriottico) che non c’è quasi più nella Hollywood di oggi. 

Con Rambo: Last Blood, Sly si affida ad un regista tutt’altro che famoso come Adrian Grunberg, cercando di regalare al suo personaggio una chiusura degna e significativa, idealizzata in quella iconica (?) scena di lui mentre dondola sulla sua sedia nel ranch in Arizona. Una chiusura che vuole ricordarci quella del suo Rocky Balboa, personaggio che ha trovato una nuova e sorprendente strada nei due Creed.


Forse è proprio questa volontà di creare un film più introspettivo, privato, quasi intimo che non convince. E almeno fino a quando non si sfocia in una violenta e oltremodo splatterosa scena finale, il film zoppica vistosamente.  Il Focus della pellicola, si percepisce sin dai primi minuti di proiezione e punta a raccontare un Rambo forse inedito. Un film che vuole ricalcare non solo Creed ma anche, in parte, il recente Logan. Il tramonto dell’eroe. 

La trama però  è banale, povera di contenuti ed estremamente autoreferenziale. Si gioca con gli stereotipi, trasformando la prima parte della pellicola in qualcosa che non sembra far sentire a suo agio nemmeno Stallone stesso durante la recitazione. Dai trafficanti messicani alla necessità di salvare quella Gabriela che reputa come una figlia. E, volendo approfondire il discorso, sembra ricordare un pò la storia stessa del personaggio, incapace di trovare un ruolo all'interno della società se non con un'arma in mano. In questo senso "Last Blood" restituisce alla perfezione il ruolo tormentato di un'eroe perennemente fuori posto, così come questo film risulta essere completamente fuori contesto all'interno della saga stessa.

Lo si percepisce anche nella parte finale della pellicola, forse l’unica (e guarda caso si combatte) davvero convincente. Una violenza sicuramente esagerata, ma non gratuita. Sembra quasi che John Rambo si sia finalmente liberato di un peso, e che in quel massacrato stia trovando la via della pace, l’espiazione necessaria che lo porta verso un cammino più sereno e pacifico. Nei cunicoli che tanto ricordano il Vietnam (con tanto di canzone dei The Doors in filodiffusione) ritroviamo quello che probabilmente i fan della saga si faranno bastare una volta al cinema; ritroviamo quel Rambo che, nonostante una prima parte del film che ha davvero poca amalgama, esce in maniera prepotente. Tutto questo è sufficiente? No, purtroppo no. Il “miracolo” fatto con Rocky Balboa, non riesce a Stallone anche con Rambo. Una sorta di maledizione, per un personaggio che, invecchiando, non è mai riuscito a convincere come quello del pugile italoamericano. La sensazione è che Sly senza meno suo il reduce del Vietnam, portando il tutto in una spirale che fa scivolare in malo modo la prima parte della pellicola. 

Si poteva fare forse di più, ma Rambo si è congedato, e forse, per conservane un bel ricordo, è meglio così.