Recensione Rapina a Stoccolma
La vera storia sulla nascita della famosa sindrome
La Sindrome di Stoccolma è quel fenomeno che coinvolge la vittima e il suo carceriere. Col tempo la vittima tende a solidarizzare per le motivazioni del proprio "custode", fino ad innamorarsene. Pochi sanno però l'origine di questa "Sindrome".
Stoccolma, 1973.
Il primo ministro svedese Olof Palme (socialdemocratico, anti-nixoniano, in tutti i film occorre sempre che qualche personaggio parli male di Nixon) governa in uno stato all'avanguardia sul fronte dei diritti civili e sociali, ma un fatto di cronaca (del tutto inedito per quel paese) sembra guastare l'atmosfera: una rapina in banca.
Attraverso diversi stratagemmi l'enigmatico Kaj Hansson (Ethan Hawke) si trincera dietro la Banca di Commercio prendendo tre persone in ostaggio. Il capo della polizia utilizza tutti i metodi per catturarlo, anche quelli più eterodossi, mentre sul fronte governativo emerge una linea ferma finalizzata a non concedere nessun tipo di margine di trattativa. In tutto questo la cassiera della banca (Noomi Rapace) incomincia a solidarizzare col suo carceriere.
Guardando un film come "Rapina a Stoccolma" (che non va considerato quanto per la volontà di dar vita ad un'introspezione psicologica dei personaggi, bensì per distillare allo spettatore un po' di action in salsa ironica) vengono in mente due tipi di film in parte (in parte) paragonabili alla pellicola di Budreau: "Quel pomeriggio di un giorno da cani" di Lumet e "L'incredibile vita di Norman" di Jospeh Cedar.
Come nella pellicola di Lumet, in "Rapina a Stoccolma" vediamo una folle rapina in banca in cui il rapinatore strepita, urla contro la polizia e pretende una macchina per fuggire (e non un aereo per andare in Algeria). Come nel film di Cedar (che contaminava la tradizione cinematografica israeliana col "grande" cinema americano") in questo film attori e protagonisti anglosassoni si confrontano col cinema svedese contemporaneo.
Ambientazioni, maestranze in salsa svedese che rendono questo film contaminato ed anonimo al tempo stesso. Non è dunque per nulla chiara l'utilità di una pellicola come "Rapina a Stoccolma" in cui attori americani sembrano essersi una vacanza premio nella capitale svedese, tra guglie, canali ed il Palazzo Reale dei Vasa sullo sfondo.
La stessa volontà di dar vita ad una saga familiare (il flashback iniziale) o ad un'analisi psicologica sulle donne che amano il proprio carceriere, non riesce ad essere incisiva, limitandosi a qualche battuta farsesca o a qualche risatina sul criminale che riesce a tenere sotto scacco la tonta (ma nemmeno troppo) polizia del Regno di Svezia.
Al netto di voler dare un punto d'origine alla famosa sindrome, Rapina a Stoccoloma è il prodotto minore di un cinema in trasformazione, che non sembra ancor individuato una sua vera identità. Nel frattempo però, si fa un giro in Scandinavia.
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Redazione