Recensione The Front Runner: Il vizio del potere

Quando la Casa Bianca perse la sua sacralità.

di Elisa Giudici

Complimenti, questo è il giorno in cui siete diventati dei tabloid. Lo sibila Gary Hart a un reporter che dà il colpo di grazia alle sue aspirazioni di entrare alla Casa Bianca. Siamo nel 1988 e, solo tre settimane prima, il politico democratico era il vincitore annunciato delle primarie del suo partito con un distacco schiacciante sulla concorrenza e il papabile trionfatore della corsa alla presidenza; il suo avversario repubblicano Bush appariva opaco e poco credibile. 

The Front Runner - il vizio del potere è il racconto delle tre settimane in cui Gary Hart si giocò fatalmente il futuro da presidente, ma anche di una vicenda riletta da Jason Reitman come lo spartiacque politico tra la sacralità della politica e la sua trasformazione in una seconda Hollywood, terra di stelle e VIP a cui è vietato il diritto a alla privacy. Non a caso il film si apre con un breve incipit, che pone in un unico, prolungato, elegante dolly tutti i protagonisti della vicenda: Gary Hart che esce giovane perdente con onore dalla sua prima corsa alle primarie, i giornalisti che stanno commentando in diretta la notizia e lo staff tecnico del candidato che già pensa alle “sue” primarie, quelle del 1988. 


Arrivato alla prova dei fatti Gary Hart si dimostra un candidato di altri tempi, solido, moralmente granitico, profondamente interessato alla cosa pubblica e infastidito da pettegolezzi e questioni triviali, come le foto in posa con la famigliola sorridente sulla rivista di Life. È un candidato inconsueto, che viene dall’Ovest montuoso e fiero, che ha però saputo trasformare il suo carattere ombroso da uomo di montagna in una compostezza affascinante, in una concretezza seriosa che fa apparire vacui i suoi sfidanti. Al pari di Kennedy, anche esteticamente ha tutto quello che serve per la vittoria negli anni ’80 dell’edonismo e della leggerezza; un ciuffo folto e una fotogenia rara e il carisma per guardare dritto in camera mentre parla gli elettori e mentre annichilisce gli avversari nei dibattiti.

Il suo tallone d’Achille sembra essere la ritrosia a parlare della sua vita privata; un argomento che non lo distanzia molto dall’attuale inquilino della Casa Bianca, come sottolineato da David Ehrlich su Indiewire. Con la sola differenza che Gary Hart prima auspica, poi pretende di non dover mentire o glissare: semplicemente la sua vita privata deve rimanere fuori dal quadro di giudizio fornito all’elettore. Una sua frase estrapolata fuori contesto e un pedinamento svolto da un giornalista di Miami (disprezzato dai colleghi “politici” della costa Est) fanno il resto: emerge il pruriginoso scandalo sessuale, l’adulterio che fa da costante alla caduta rovinosa di tanti presidenti americani. 


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Nel mettere il piede in fallo con i pantaloni calati Gary Hart sembra ancor più autenticamente un Presidente, occasione che però il film di Reitman non coglie, impegnato com’è a ricreare un racconto corale e in presa diretta, alla Altman, della fine della corsa di Hart e della sacralità della politica. Gary Hart da integerrimo diventa ambiguo e infine recidivo nel voler difendere la propria posizione col silenzio, non parlando con la stampa, pretendendo di rispondere dei suoi tradimenti solo alla moglie. Nel mentre assistiamo alle telefonate e alle riunioni delle varie redazioni giornalistiche, dal The Washington Post al Miami Herald. Tutti si chiedono sin dove sia lecito spingersi, cosa possa essere pubblicato e cosa no. Solo un decennio prima le amanti che andavano e venivano dalle stanze dei candidati lo facevano alla luce del sole ed erano considerate assolutamente off limits. 

La tragedia di Gary Hart è di capire troppo tardi che questa regola non vale più, per i giornalisti e per i candidati. Si muove troppo tardi e troppo perentoriamente, senza sfruttare davvero le scappatoie che il lavoro giornalistico non ineccepibile svolto dai suoi accusatori gli forniva. La piccola tragedia del film che racconta la sua caduta, The Front Runner - il vizio del potere, è di presentarsi come sopra le parti, capace di catturare la complessità ambigua della rapporto tra cosa pubblica e privata, tra diritto all’informazione e quello alla riservatezza. Salvo poi svelare sin troppo platealmente chi pensa abbia ragione, dando massimo risalto a Hugh Jackman nel ruolo dei protagonista, sacrificandogli ogni complessità promessa e mai realizzata all’impressionante cast di comprimari (Vera Farmiga, Alfred Molina, J.K. Simmons) drammaticamente sottoutilizzati. 


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