Recensione The Irishman
La grande esperienza cinematografica firmata da Scorsese
Può sorgere spontanea una domanda in merito al nuovo film “The Irishman” di Martin Scorsese (ormai visibile soltanto sulla piattaforma Netflix, che ha prodotto il film): ma vale la pena passare 3 ore e mezza a guardare un film?
La risposta è che sì, ne vale assolutamente la pena.
In primo luogo come esperienza (mi permetto di dire) extracinematografica.
“The Irishman” infatti non è il film più bello del regista italoamericano. Ma assume senz’altro le sembianze di un film antologico, quasi testamentario. Una summa ed una quintessenza (per dirla come Truffaut sul “Notorious” di Hitchcock) del cinema scorsesiano.
Scorsese ha girato numerosi film e di diversi generi: introspettivi (“Taxi Driver”, “Al di la della vita”), sperimentali (come “Afterhour”) o kolossal (basti pensare a “Silence”, “Kundun”, “Hugo Cabret” e per certi versi “Il colore dei soldi”).
Ma il cinema di Scorsese è identificato (a torto o ragione) coi film sui gangster, quelli sui "bravi ragazzi". Grandi narrazioni individuali capaci di diventare patrimonio comune e parte della storia di un paese.
Il tutto, con una tecnica ben definita (mutuata dalle innovazioni stilistiche della Nuova Hollywood) e da una colonna sonora composta da brani generazionalmente rilevanti o legati all’epoca storica narrata. E “The Irishman” è verosimilmente l’ultimo tassello di quella serie di film che hanno reso Scorsese il regista che noi conosciamo. Martin Scorsese realizzerà altri film, ma non come questi. Forse anche più belli, ma non tipicamente scorsesiani.
Per realizzare dunque l’ultimo capitolo di questa saga, occorrevano 3 ore e mezza. Ed occorrevano gli amici di sempre: De Niro e Pesci (che non partecipavano ad un lungometraggio del regista dal “Casinò” del 1995), una storia forte col vezzo (da parte del regista) di regalarsi per la prima volta in un suo film la presenza di Al Pacino (che diede vita ad uno dei derby attoriali più sentiti nel corso degli anni ’70).
In queste tre ore e passa di full immersion dunque non solo assistiamo ad una storia “segreta” americana, alla riscoperta della figura di Jimmy Hoffa (almeno per quanto riguarda il cinema) e a tutto quello che Scorsese ci ha abituati in oltre 50 anni di cinema, ma alla fine di un mondo che sta finendo. E che ha dunque scelto di dar vita ad un ultimo grande banchetto a cui tutti noi possiamo assistere.
Se uno ci pensa, è un privilegio raro.
In questo appare particolarmente significativa la presenza nel film di Harvey Keitel. Compare pochi minuti, parla poco, non sarà nominato a nessun premio e a nessun Oscar, ma vogliono dire tanto quei minuti: fu Keitel (ancor prima di De Niro) l’attore feticcio del regista newyorchese.
Al raduno finale, non poteva non essere invitato anche lui.
Questa piccola curiosità legata a Keitel è forse la chiave per comprendere realmente lo spirito con cui il regista si è approcciato ad un lavoro che sancirà (come doveva forse fare “Toro Scatenato” nel 1980, quando Scorsese meditava l’addio alla regia cinematografica) la raffigurazione massima di un’idea di cinema e del suo geniale autore.