Recensione Unicorn Store
Non è tutto oro quel che luccica
Brie Larson affronta il mondo dietro la telecamera approdando alla regia con un film targato Netflix: Unicorn Store. Un progetto alla quale lei voleva partecipare dal punto di vista prettamente attoriale, ma che anni dopo le ha dato la possibilità di provare una nuova strada artistica all’interno del mondo cinematografico. Ed è proprio l’arte l’elemento protagonista all’interno della magica storia raccontata in questo film.
Sulla soglia dei trent’anni, un po’ tutti dobbiamo venire a patto con la realtà; e Kit (Brie Larson) riceve da essa uno schiaffo in pieno viso che porta con sé il sapore del fallimento. Fin dalla più tenera età lei ha immaginato un mondo magico, un rifugio fatto di arcobaleni, brillantini e unicorni; coltivando, disegno dopo disegno, una smisurata passione per l’arte. Ma in un mondo convenzionale, adesso che è cresciuta, Kit sembra essere completamente fuori posto. Come artista non rispetta i canoni dei suoi maestri, come figlia non crede di essere quello che avevano desiderato i genitori, e a lavoro non è altro che una delle tante stagiste in un modo troppo uguale per lei. Tutto cambia nel momento in cui riceve uno strano invito che la spinge a recarsi in un luogo chiamato “The Store”. Qui incontrerà uno strano rivenditore (Samuel L. Jackson) che le darà la possibilità di realizzare il suo più grande sogno: adottare un unicorno.
La coppia Jackson-Larson sullo schermo, grande o piccolo che sia, funziona; è innegabile che i due riescano a coordinarsi nelle diverse varianti cinematografiche. Li abbiamo visti insieme per Captain Marvel, e in questa commedia riescono perfettamente a unirsi per confermare quelle classiche figure archetipe della poetica letteraria. Il rivenditore diventa così il “mentore” della nostra eroina che viene chiamata all’azione per cercare di raggiungere la propria catarsi, ma l’intero cammino si mostra un po’ debole. La bravura della Larson è la giusta chiave per poter salvare il personaggio che lei stessa interpreta; le sue espressioni sono il punto di contatto con lo spettatore, specialmente nei primi piani che le vengono dedicati quando la pittura prende il sopravvento.
L’arte, così come l’unicorno, non è altro che simbolo di quella magia che caratterizza le potenzialità che Kit possiede, ma il raggiungimento della pienezza lascia con l’amaro in bocca. Molti eventi si susseguono intorno alla protagonista, ma la maggior parte sembrano gettati un po’ a casaccio senza avere un reale compimento o un pieno coinvolgimento. Il modo con cui la storia viene narrata risulta un po’ carente, appesantendo di fatto la pienezza dell’azione. Le battute, le gag, non riescono mai realmente a far ridere; e se vi è una carenza nello spirito comico questa viene mantenuta anche nella struttura più toccante. Sembra quasi che il pubblico sia destinato solo alla superfice della magia anticonvenzionale che vi è nella fantasia di Kit.
Il movente principale del film resta così quasi incompiuto, l’auto-accettazione resta in disparte davanti il cumulo di lustrini che circondano la stessa protagonista. I sogni, che per tutto il film si sono scontrati con la realtà, non fanno altro che nascondere qualcosa di già visto.
Voto
Redazione