Roma

"Sarebbe bello tornare alle origini, alla semplicità, al Messico. E realizzare un film sulla scia di "Y tu mama tambien".

Queste le parole e il credo di Alfonso Cuarón negli ultimi 5 anni, a seguito della sua definitiva consacrazione (con l'Oscar alla miglior regia per "Gravity") come regista di fama internazionale e maestro della settima arte.

Cuarón infatti non soltanto rappresenta un cineasta di valore e ben voluto dagli studios (come dimostra il fatto che gli abbiano commissionato "Harry Poter e il prigionero di Azkaban" nel 2004).

Ma anche un simbolo. In primo luogo di riscossa.

E' il primo della lunga scia di messicani che si è affermato a Hollywood e in seno all'Academy (subito dopo sono arrivati Innaritu e Del Toro), in primo luogo. Ma anche un cineasta che fa del rapporto con l'altro e dell'analisi del vivere civile come suo vero e proprio credo cinematografico. In grado di andare oltre stereotipi, confini o impedimenti storici (come ben testimoniò il suo discorso d'insediamento come Presidente della Giura della Mostra del Cinema di Venezia nel 2015, tutto incentrato sull'emergenza migranti di quei giorni).

E questo suo ritorno alla semplicità, al Messico e ad un apparentemente antistorico bianco e nero arriva con il suo nuovo film "Roma", che non a caso giunge dopo l'Oscar e dunque dopo il punto massimo per la carriera del 57enne messicano.

"Roma" non è un film sulla città eterna o sui tanti problemi amministrativi della capitale d'Italia, ma è il racconto di una città nella città: Città del Messico. Un quartiere residenziale, dove Cuarón e cresciuto in un contesto familiare borghese ma non sprovvisto di quella rudezza e di quella tristezza che risultano essere da sempre (sopratutto in ambito cinematografico) caratteristiche di quella parte di società che spesso appare tutto, per in realtà non essere niente.

Ma al tempo stesso "Roma" nel suo bianco e nero, nel suo non avere attori di fama e nel suo non essere un film in lingua inglese (la lingua del cinema per antonomasia) non è un film semplice. E sopratutto, non è un film povero.

La pellicola, che si è aggiudicata il Leone d'Oro all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, è infatti la trasposizione su scala "colossale" dei più tradizionali film d'autore. In cui il regista volutamente realizza un enorme set di studio ed in cui il ruolo del sonoro (fondamentale in questo film) basato sulla presa diretta, ricorda moltissimo le prime pellicole di Altman.

Tutto ciò porta dunque a considerare "Roma" come un film apparentemente semplice. Ma in realtà lungo, costoso ed elaborato. Definendosi come un "kolossal autoriale", in cui più che i rimandi al neorealismo (fuorvianti ma influenzati da una recitazione degli attori apparentemente non-professionistica) il regista sembra rifarsi al filone del cinema americano desideroso portare avanti stili e tematiche perlopiù di stampo europeo (per certi versi, operazione simile a quella di Paul Thomas Anderson, il più "europeo" tra i registi statunitensi).

"Roma" ha fatto molto discutere non soltanto per il Leone d'Oro e per l'approvazione pressoché unanime della critica. Ma anche in quanto pellicola prodotta da Netflix e dunque al centro del dibattito sul ruolo delle sale cinematografiche del nuovo secolo.

Ma al tempo stesso resta un forte esercizio di stile.

Il bianco e nero da questo punto di vista appare l'elemento chiave (assieme alla narrazione collettiva) del film. Cuarón infatti risulta sia autore della sceneggiatura, sia regista, sia direttore della fotografia. E forte dell'insegnamento del suo fidato fotografo Emmanuel Lubezki (vincitore di 3 Oscar, tra cui quello di "Gravity") realizza egli stesso una fotografia che gioca col bianco e sopratutto col grigio, sforzandosi di dar vita ad una storia dai contorni biografici e dunque volutamente sprovvista del colore nero. Perché nella memoria e nei ricordi, il nero non compare quasi mai.

In questo senso la storia dell'affettuosa tata Cleo, della famiglia alto-borghese del quartiere Roma e delle vicissitudini di ogni giorno e con tanto di infedeltà coniugali, risulta quasi un espediente per mostrare allo spettatore alcune situazioni tipo. La bravura di Cuarón nel riprendere una scena d'insieme, per esempio: quando è in corso la curiosa esercitazione di arti marziale, con tanto di wrestler in azione mentre sul cielo grigio di Mexico City vola un areoplano.

Oppure la capacità da parte del regista di riprendere l'incendio del bosco, la festa di Capodanno (con tanto di vinile di Jesus Christ Superstar, del resto l'azione è ambientata tra il 1970 e il 1971, quando aveva da poco debuttato in teatro il musical di Rice e Lloyd-Weber) o anche la struggente scena sulla spiaggia in cui nell'abbraccio i diversi, le classi e le singole razze si fanno tutt'uno nella sofferenza umana. Si, si fanno tutt'uno, ma mentre (casualmente) il sole picchia in mezzo al cielo sulla spiaggia di Veracruz, realizzando per lo spettatore una visione straniante in cui sì, è anche possibile percepire l'accecarsi del sole in un film girato interamente in bianco e nero. Perché quello deve essere (e non la vicenda narrata) l'elemento predominante della pellicola.

Su queste basi, e tenendo conto di questa lezione, il regista poi gioca con l'armonia.

Raccontando una storia familiare, ma non troppo. Limitandosi a qualche riferimento all'infedeltà coniugale del marito della padrona, ma senza sviscerare troppo l'argomento e realizzare un film sulla separazione dei genitori. E facendoci vedere il cinema ed il Messico della sua giovinezza, il quanto che basta.

Sono dunque piccole perle i manifesti elettorali del Partito Rivoluzionario Istituzionale messicano (il partito di governo per oltre 70 anni nel paese), poco lontano dal bar dove Cleo e la sua amica vanno a bere la Coca Cola. Così come appare un omaggio commosso il riferimento al terremoto, ai film di Louis de Funes, al poster di "Mexico '70" nella camerette del bambino o ai disordini di piazza e le differenze di censo che rendevano allora il Messico una vera e propria pentola a pressione nel bel mezzo del continente americano. Il regista ci fa annusare tutto questo. Ma non si citano disordini, movimenti politici o battaglie generazionali. Perché non è questo il punto, non è questo l'obiettivo.