Se la strada potesse parlare

È quanto mai il caso di dire: dove eravamo rimasti? Istantanee: Roma, 2016. La Festa del Cinema decide di aprire la sua undicesima edizione con un film d'apertura perlopiù sconosciuto. Sconosciuto il regista, sconosciuto gran parte del cast (se si esclude qualche attore con esperienze nel campo della serialità), sconosciute le intenzioni. Il film in questione si chiamava Moonlight. Il regista era Barry Jenkins.

Qualche mese dopo, a Los Angeles, Moonlight si aggiudicò (a scapito di La La Land) la statuetta come Miglior Film nei Premi Oscar 2017, in quella che fu probabilmente la più clamorosa tra le cerimonie dell'Academy, con tanto di errore e batticuore sul finale. Barry Jenkins, dopo due anni di assenza, torna nei luoghi del misfatto: la Festa del Cinema di Roma e (si presume) i Premi Oscar. Ma stavolta possiamo dire che i risultati non sono affatto all'altezza delle aspettative e dei film precedenti.

Se la strada potesse parlare è tratto dal romanzo omonimo di James Baldwin, e sembra ricalcare gran parte delle principali caratteristiche del cinema di Jenkins. In primo luogo i temi, quelli della discriminazione razziale e della mancata integrazione degli afroamericani in quella che (a detta dei padri costituenti) doveva essere una terra di democrazia ed opportunità per tutti i suoi cittadini (Jenkins è un regista di colore).

In secondo luogo le ambientazioni: perlopiù ghetti, periferie delle città dove si districano narrazioni o generazionali (come nel caso di Moonlight) o di tipo familiare (come in questo film), in modo da far comprendere allo spettatore la situazione degli Stati Uniti d'America del periodo e le difficoltà (psicologiche, relazionali, sociali) per i suoi cittadini di colore.

Nonostante tutto possiamo dire che, mentre Moonlight univa alla narrazione generazionale (e scandita da tre diverse fasi della vita di uno stesso personaggio) degli elementi prettamente artistici in cui il regista dava un'idea di cinema anche per quanto concerne il lato tecnico (su tutti il piano sequenza iniziale e la volontà di non riprendere direttamente ed esplicitamente delle scene di violenza), in questo caso, invece, l'eccesso di didascalismo (essendo la trasposizione filmica di un libro) la fa da padrona ed il regista si sente fortemente in dovere di raccontare tutte le vicende dei suoi personaggi. Non ponendosi il tema (antica questione) che non tutte le vicende letterarie sono efficaci sul grande schermo come lo sono sulla carta stampa - il famoso luogo comune ‘meglio il libro del film’, ma non sempre è stato così come ci insegnano registi come Kubrick o Spielberg.

Da questo punto di vista appare particolarmente significativa la vicenda della ‘trasferta a Porto Rico’, poco caratterizzata sul fronte visivo e capace di creare un sentimento di disomogenità in una pellicola che (tra i tanti difetti di cui sopra) poteva avere almeno il vantaggio di rivendicare una certa omogenità dovuta al tema trattato ed al luogo dove avvenivano gran parte della azioni.

Su questo fronte occorre sottolineare come Se la strada potesse parlare, da un certo punto di vista, definisce ulteriormente le principali caratteristiche del cinema di Jenkins. Ma dall'altra risulta essere un passo indietro netto rispetto al film precedente. Aspetto, quest'ultimo, che non porta dunque il regista a crescere artisticamente. Il tutto, in un contesto in cui già all’epoca di Moonlight si aggiravano i sospetti per un film pluripremiato più per motivazioni politiche che artistiche.