Sisu - L'immortale: un western alla Tarantino ammantato di leggenda che scivola nel finale
Un'ottima prova fino a una caduta finale
“Sisu è una parola finlandese iche non può essere tradotta. È un coraggio alimentato dalla paura e una determinazione inimmaginabile. La Sisu si manifesta quando ogni speranza è perduta”.
Con queste parole il film che domina la classifica italiana di Netflix, Sisu - L’immortale, ci introduce alla storia di un uomo anziano, per questo non è in guerra: è un ex soldato, che in Lapponia continua il suo lavoro di cercatore d’oro. Mentre i nazisti stanno lasciando la Finlandia, lasciandosi dietro morte e distruzione.
La trama di Sisu - L’immortale
1944. Unione Sovietica e Finlandia hanno firmato un armistizio che prevede l’impegno dei finlandesi nello scacciare i nazisti rimasti in Lapponia, in fase di ritirata. Rimasti in piccoli gruppi, ciò che resta della loro Compagnia, i nazisti s’imbattono in un uomo che attraversa il Paese a cavallo. È un cercatore d’oro. Ma i nazisti che decidono di derubarlo non conoscono ancora la sua vera identità. Quell’uomo è Aatami Korpi, l’uomo che i russi hanno soprannominato Košej l’immortale.
Vien di giorno l’Uomo Nero
Quello di Košej l’immortale non è solo un soprannome. Si tratta infatti del nome di una leggenda della mitologia slava. Un personaggio molto, molto malvagio. Un uomo anziano, difficile da guardare per il suo aspetto sgradevole, ricchissimo e avaro. Un cattivo che passa il tempo a rimirare il proprio oro, considerato immortale perché non si può uccidere a meno che non si distrugga prima la sua anima (che egli conserva in un luogo irraggiungibile). Una sorta di versione slava del nostro “Uomo Nero”.
A dargli vita nel film Sisu, co-produzione finlandese, britannica e statunitense, è l’attore Jorma Tommila (Trasporto eccezionale - Un racconto di Natale), che all’epoca delle riprese aveva 65 anni e sfoggiava un fisico e una forza da far invidia a un trentenne.
Scritto e diretto da Jalmari Helander, vede il regista e sceneggiatore finlandese, classe 1976, tornare a lavorare con Tommila dopo il loro successo Big Game - Caccia al presidente. Soprattutto, però, evidenza come Helander abbia evidentemente studiato i film di Sergio Leone. E non solo. Siamo di fronte a un revenge movie che mescola azione, western e puro pulp.
Sergio Leone meets Quentin Tarantino
Le potenzialità di Sisu sono enormi. Mentre impera la Seconda Guerra Mondiale, non sentiamo pronunciare una sola parola per i primi 12 minuti di film. E il protagonista non parlerà mai, per tutto il film.
Eppure siamo ipnotizzati da questo paesaggio incantevole e alieno allo stesso tempo, in un film girato in tutto e per tutto come un classico western (all’italiana). Sul cui impianto narrativo viene innestato lo stesso tipo di violenza esplosiva tipica dei film di Tarantino.
Gli spazi sterminati, desolati e al tempo stesso pieni di speranza che fanno ad ambientazione al film restituiscono la perfezione di una fotografia di altissima qualità. Studiata con cura per accompagnare il senso di angoscia degli spettatori. In una terra aperta e sterminata, senza alcun riparo, ci sentiamo al contempo liberi e braccati . Consapevoli di non avere dove nasconderci.
La regia, anch’essa estremamente funzionale al racconto, passa dal dettaglio al campo largo per sottolineare questa doppia sensazione. Senza mai, mai tradire la strategia di Korpi.
Al suo primo incontro con i nazisti, il comandante di ciò che resta di una Compagnia tedesca sembra mostrare pietà. Non è così: sta solo lasciando la preda a coloro che verranno dopo di lui. Commettendo un errore fatale.
I brevi capitoli che danno il titolo ai vari segmenti, in puro stile “western tarantiniano” anche per il mondo in ci viene esposta la carne e in cui il sangue sprizza dalle ferite, ci accompagna mentre il protagonista continua a non dire una parola. A palare per lui sono le sue azioni, il suo sguardo, i suoi gesti. Non lo conosciamo, non sappiamo nulla di lui finché non ci viene raccontata la leggenda che circonda il suo passato e la sua vita. Eppure sappiamo quanto sia legato ai suoi animali, il suo cane e il suo cavallo. E riusciamo a sentire il suo senso di disperazione si evince dalla scelta di provare a salvare il suo oro piuttosto che la propria vita.
Il silenzio con il costante rumore del vento che soffia, interrotto solo dagli spari e dall’esplosioni, crea un’atmosfera perfettamente calibrata sul senso di ineluttabilità del film, sottolineato in modo deciso anche dalla regia.
La caduta di stile finale
Sisu sarebbe potuto essere un grande, grande film. Ma forse una mancanza di esperienza - o magari le esigenze produttive dei tre Paesi coinvolti - spingono Helander a forzare la mano. A spingersi troppo oltre.
Peccato che si esageri perché la parte strettamente finale, diciamo quella “non sulla terraferma” per non fare spoiler, compromette l’intero risultato. Giocandoselo in modo diverso, anche il faccia a faccia finale sarebbe entrato in modo più verosimile in questa storia. Invece si è voluto strafare, scivolando in quella che tanti critici definiscono “un’americanata” con un termine che, in questo caso, rende l’idea.
Il nostro Košej vive della propria storia. È una figura ammantata di leggenda, il cui nome - Aatami Korpi, rappresentato dall’intraducibile Sisu - fa paura a chiunque ne abbia sentito parlare. Per quanto riguarda i nazisti, mettiamola così: nel 1944, in fase di ritirata di imminente (consapevole) sconfitta, tendevi a credere a ciò che ti raccontavano. Leggende incluse.
Ci avremmo creduto anche noi fino in fondo, se non fosse per quell’ultima sequenza campata in aria. Che compromette il risultato finale, senza però cancellare il valore di quasi tutto il film.