Smile, recensione: ottima intuizione, mezzo sorriso
Sembra un horror riempitivo come tanti altri, invece Smile colpisce in positivo, grazie a una premessa stuzzicante e a un regista che si fa in quattro per spaventare.
È da qualche anno che il genere horror gode di ottima salute. Al botteghino è tra i pochi a cavarsela anche con gli incassi passaggi in sala e per quanto riguarda la critica, ha raccolto recensioni mediamente positive in misura sempre maggiore, con alcune punte di eccellenza che hanno segnalato le recenti annate cinematografiche e l’immaginario collettivo pop.
Sono quasi del tutto passati i tempi degli horror pigri e sleali verso i propri fedelispettatori, messi insieme al risparmio e con una storia e una regia che fanno il minimo del minimo per spaventare lo spettatore. Pur rimanendo un genere fatto in economia (ma con sempre maggior intelligenza nel contenere i budget ma non la qualità), nel 2022 l’horror commerciale si è contraddistinto per aver azzeccato quasi tutte le sue uscite. Viene portato avanti da una nuova leva di produttori, registi e sceneggiatori fan del filone e intenzionati a fare bene, sia con i ritorni dei franchise più gettonati sia con i soggetti originali. Storie nuove sempre più rare al di fuori del genere.
In questa ultima categoria si ascrive Smile, horror di Paramount che si presentava come un’uscita riempitiva e modesta, mentre invece ha sorpreso e molto in positivo. La pellicola, scritta e diretta dall’esordiente Parker Finn, si rivela un horror capace di angosciare e spaventare, grazie a una premessa davvero stuzzicante e a una regia che si sforza moltissimo per dare spessore e carattere. Peccato che la storia e in particolare la caratterizzazione dei personaggi non siano davvero all’altezza del resto, finendo per rendere un po’ scontata l’evoluzione di Smile.
La trama di Smile
Smile richiama subito alla mente Hereditary per come indaga il tema del trauma, descrivendolo come una sorta di fardello quasi genetico che passa da generazione a generazione, da persona a persona. Protagonista della storia è la dottoressa Rose Cotter (Sosie Bacon), una psicoterapeuta che tenta di aiutare pazienti con gravi forme di paranoia o esaurimento, in contesto ospedaliero. Altruista e dedita al suo lavoro con zelo, Cotter risponde a un’emergenza dell’ultimo minuto: una ragazza di nome Laura (Caitlin Stasey) è appena stata ricoverata ed è in stato di profonda agitazione.
Laura sembra avere tutti i sintomi di una grave forma paranoide a seguito di un episodio traumatico di cui è stata testimone: il suo professore universitario si è ucciso a martellate davanti a lei. La ragazza riferisce alla dottoressa di essere terrorizzata da un’entità che solo lei riesce a vedere, un essere in grado di assumere le sembianze di chiunque. Che assuma l’aspetto del nonno morto tanti anni prima o di un passante, quest’entità sorride con assoluta malvagità a Laura, terrorizzandola. Poco dopo Laura si uccide davanti a Rose, sorridendole sinistramente mentre si taglia la gola. Trovandoci in un horror è facile dedurre che la dottoranda fosse tutt’altro che folle.
Rose si ritrova dunque ad affrontare lo stesso incubo narratole dalla sua paziente. Le allucinazioni o visioni di cui è vittima si fanno sempre più spaventose, mentre la dottoressa comincia a capire cosa la perseguita, come agisce e quale destino l’attenda.
Smile e la pesante eredità di Hereditary
Smile è davvero un horror ben calibrato nella sua costruzione: ha una premessa semplice ed efficace, basata su poche e semplici “regole” che la protagonista apprende in fretta ma a cui è davvero difficile sfuggire. Le radici volutamente oscure dell’entità e la vaghezza con cui il film la descrive, fornendo allo spettatore solo le informazioni strettamente necessarie, aggiungono ulteriore fascino a un film che fa della sua essenzialità un punto di forza, comprendendo bene che alle volte è controproducente entrare troppo nel dettaglio, spiegare e rivelare tutto, in termini di atmosfera ma anche di autorità narrativa.
Parker Finn non dimostra dall’esordio il talento notevole (ma spesso mal gestito) del collega Ari Aster, né la sua visionarietà. Finn è uno che si dà davvero molto da fare a livello di regia, forse persino pure troppo, facendo molta fatica ma non sempre con i risultati sperati. La tensione in Smile è costruita senza ricorre a mezzucci troppo dozzinali, ma con un uso sapiente degli hard cut (giustapposizione di due scene in maniera ravvicinata e improvvisa) volto a prendere lo spettatore di sorpresa. Dietro lo sportello aperto del frigo aperto non comparirà un mostro, né la protagonista dovrà inoltrarsi in una cantina buia senza torcia. Al momento giusto, affronterà il suo passato traumatico a testa alta, dominando la sua paura, confrontandosi a viso aperto col suo rimorso. Capita però che le appaiono all’improvviso volti terrorizzanti o che la sua percezione della realtà si riveli lentamente, inesorabilmente, una discesa infernale nelle allucinazioni create dall’entità sovrannaturale che la manipola.
Finn condisce il tutto con riprese dall’alto (la cosiddetta “prospettiva a occhio di Dio”) dell’ambulanza che arriva in pronto soccorso che poi attraverso la finestra di uno studio in cui entrerà poco dopo la protagonista, panoramiche sottosopra dell’orizzonte urbano della città, girato in steady-cam che ruota di 90° cambiando l’asse verticale con l’orizzontale. La regia non è incolore, ma spesso questo tentativo di darle risalto non ha poi un impatto vero e proprio sul film. L’utilizzo di queste tecniche finisce per essere fine a sé stesso, non riuscendo ad avere funzione o impatto spefici, risultando forzato. Finn riesce solo una volta a creare una scena che impatta sulla mente dello spettatore (la festa di compleanno), ma niente di paragonabile a un certo palo della luce in Hereditary. Per ora il talento visivo di Aster e una certa capacità di creare un’iconografia della sua stessa storia gli sfugge, nonostante si sforzi tanto in questa direzione.
Ciò in cui invece è molto carente è lo sviluppo della sceneggiatura e in particolare dei personaggi che si muovono in essa. Molto del potenziale di Smile è corroso dall’incapacità dello sceneggiatore e regista di portare i suoi personaggi oltre la dimensione dello stereotipo horror che incarnano. Rose e gli altri hanno poca personalità e, pur non agendo da sciocchi come accade in certi horror d’infima qualità, sono più lenti dello spettatore a mettere a fuoco la situazione. Fanno esattamente quel che ci si aspetta da un personaggio di un film horror, qualche secondo più lentamente dell’auspicabile, portando lo spettatore a indovinare sempre all’ultimo cosa stia per succedere.
Per un film che parla di trauma e psicoanalisi, Smile è davvero amatoriale nel ritrarre sia la professione sia le patologie correlate. I dialoghi iniziali di Rose con i propri pazienti non sembra realistici e nemmeno “suonano” vagamente come tali, almeno al livello richiesto al cinema per mimare il gergo medicale e l’agire patologico. Rose e gli altri mancano del tutto di realismo e pure della convinzione con cui altri film mettono in fila frasi in “medichese” assolutamente ridicole agli occhi dei professionisti ma credibili di fronte al grande pubblico. Smile però ha un potenziale da franchise notevole (che non sfrutta biecamente e di questo gli siamo grati) a testimonianza dell’ottima intuizione che c’è dietro questo film.
Rating: V.M. 14
Durata: 115'
Nazione: USA
Voto
Redazione
Smile
L’affermazione più lapidaria, brutale ma purtroppo coerente che si possa fare in merito è che Parker Finn ha avuto un vero guizzo da maestro, ma manca delle capacità narrative (o di qualcosa di forte da dire) per trasformare il suo buon film in una pellicola capace di lasciare il segno.