Space Cadet: recensione del film di Prime Video con Emma Roberts

Perché Space Cadet fallisce l'obiettivo, stordendoci di retorica

di Chiara Poli

Su Prime Video è arrivato il discusso film con Emma Roberts: Space Cadet. Discusso sia per il risultato finale, di cui parleremo approfonditamente, che per le numerose polemiche da giorni intorno all’attrice per le sue ripetute dichiarazioni sul presunto odio per le celebrità e sui commenti “da internet” che decreterebbero il fallimento di alcuni film. Uno su tutti, il suo (comprensibilmente flop): Madame Web.

Pare che anche a Hollywood, come sentiamo spesso nel nostro Paese, si sia presa la strada di negare ogni responsabilità oggettiva prendendosela con i famigerati haters.

Giudicate voi, nel caso di Space Cadet, se sia il caso di scomodare tali teorie.

La trama di Space Cadet


Tiffany “Rex” Simpson (Emma Roberts, nota per i ruoli in American Horror Story e perché nipote di Julia e figlia di Eric Roberts, il fratello della celebre attrice, attore anche lui) lavora in Florida come barista. È una festaiola, non ha mai perso i contatti con l’amica del liceo Nadine (Poppy Liu, Hacks), e durante una rimpatriata incontra una vecchia fiamma, Toddrick (Sebastián Yatra, compositore e cantante), che ha messo in piedi un’azienda di voli per privati nello spazio.

Rex sogna fin da bambina di diventare un’astronauta, e ricorda i momenti insieme alla madre ad assistere ai lanci da Cape Canaveral. Dopo aver rivisto Toddrick, decide di prendere in mano la propria vita e scrive alla NASA, chiedendo di entrare nel programma per aspiranti astronauti per realizzare il suo sogno. Ma quando viene chiamata per partecipare all’addestramento, presto capisce che qualcosa non va: il suo curriculum è pieno di qualifiche inventate, e non è stata lei a scriverla… Cercando di restare a galla, sotto l’occhio vigile del bel Logan O’Leary (Tom Hopper, Merlin, Black Sails), Rex si mette a studiare e avanza nel programma. Il suo sogno, andare nello spazio, si avvererà?

La rivincita delle bionde in salsa spaziale


La rivincita delle bionde… Nello spazio. Space Cadet, con un’Emma Roberts, adorabile come sempre - nonostante i fan stiano trovano poco appropriate le continue dichiarazioni dell’attrice già citate - fa le veci di Reese Witherspoon, ma con calma: 23 anni dopo.

Le cose sono cambiate, quindi una bionda tutta di rosa vestita che mostra anche di avere cervello, dopotutto, non stupirebbe mai il pubblico contemporaneo con qualche brillante trovata in un’aula di tribunale durante un processo simulato. Ecco quindi l’idea di alzare il tiro. Da avvocato ad astronauta.

In pieno Barbie-mood, il film ci racconta che anche una bionda barista della Florida che sognava di fare l’astronauta, ma non ha accettato la borsa di studio all’università per la malattia improvvisa della madre, può riscattarsi.

Il problema è che Emma Roberts, per quanto adorabile, non è Reese Witherspoon.

E Space Cadet non è La rivincita delle bionde, che all’epoca ottenne un buon successo e una buona accoglienza da parte del pubblico, per un unico motivo: era divertente. Funzionava perché raccontava il lato nascosto delle ragazze alla moda con il cagnolino da borsetta che all’inizio del Nuovo Millennio sarebbero, loro malgrado, diventate le antesignane delle influencer di oggi. Insomma: aveva un senso, allora.

Space Cadet inizia con il piede giusto, come una commedia (romantica, che ve lo dico a fare) divertente, ma finisce per prendersi troppo sul serio. Perché fare l’astronauta è appunto una cosa seria, e tutti - bionde incluse - lo sanno e rispettano il lavoro di chi studia una vita e si sacrifica enormemente per riuscirci.

In Italia, ma non solo, abbiamo il celebre esempio di Samantha Cristoforetti, ispirazione per le ragazzine a puntare in alto. Con tanto duro lavoro, si può arrivare (quasi ovunque). Un ottimo esempio.

Come smontarlo? Facile. Siamo appunto nell’era delle influencer, in cui saper fare qualcosa e studiare non è più necessario per avere successo. Ecco quindi che Space Cadet pretende dalle aspiranti influencer - perché il target del film è quello, ed è palese - una sospensione dell’incredulità tanto forzata che perfino chiederlo a un’adolescente è quantomeno ingenuo.

L’operazione spazio, insomma, non funziona. Il film si prende talmente sul serio da risultare, fra le altre cose, troppo lungo - bisogna offrire a Rex Simpson, la protagonista, l’occasione di riscattarsi - totalmente inverosimile, noioso.

In un mondo dell’intrattenimento inspiegabilmente stregato dalla bambola più famosa di tutti i tempi che sogna di diventare un bambino vero, come Pinocchio, con (fondamentale, in Barbie) una vagina al posto del corpo di plastica che ne è privo, stiamo davvero esagerando.

Capiamo il bisogno di dare spazio alle donne, e non a caso questo film è tutto al femminile, scritto e diretto da Liz W. Garcia, che non brilla per i precedenti titoli Un’estate in New England e The Lifeguard.

I danni del post metoo


Capiamo tutto. Capiamo anche la fissazione di Hollywood per riscattarsi, nel post metoo, dando potere alle donne, magari anche nere - vedi il personaggio di Pam (Gabrielle Union) - ma quando si aspira troppo all’effetto Barbie il pubblico se ne accorge. Anche senza bisogno di un analista che gli spieghi come la sceneggiatura sia priva di ritmo, le premesse narrative siano prive di fondamento e l’evoluzione del personaggio incompatibile con il mondo che la circonda. Nella narrazione, intendo. Perfino nel contesto di un film in cui il vicedirettore del programma astronauti si lascia andare alla cotta adolescenziale per un’allieva. Per non parlare del livello di controllo delle referenze. Tutto questo può funzionare solo in una commedia, possibilmente tendente al demenziale. Non può crederci davvero, pena la sensazione del pubblico di presa in giro.

Cose che non stanno né in cielo né in terra, detto quantomai adatto, vengono introdotte in un copione che ce la poteva fare solo mantenendo il tono scherzoso e un po’ surreale del principio.

Già la NASA che chiede pubblicamente aiuto per risolvere un problema alla Stazione Spaziale Internazionale è una soluzione narrativa cheap. Pensare, poi, che l’unica a trovarla con un semplice oggetto da ufficio sia una barista della Florida scava sotto il fondo, se capite cosa intendo.

Insomma: il bel messaggio alla “insegui i tuoi sogni”, “non mollare mai” e “credi in te stesso(a)” non è che retorica appiccicata a un film che andrebbe vietato ai maggiori di 12 anni.

Perché già a 13 le incongruenze, il cambiamento di tono e la morale favolistica darebbero fastidio.

Prime Video ha scelto, come capita frequentemente con i suoi titoli, di non doppiare il film rendendolo disponibile in lingua originale con i sottotitoli in italiano. Scelta molto saggia, perché se in originale il risultato è questo posso solo immaginare quanto terribile risulterebbe con i dialoghi adattati e doppiato.

Speriamo di non scoprirlo mai.

Dopodiché: se avete delle figlie femmine fra i 10 e i 12 anni, potete guardarlo con loro. Diversamente, sarebbe una buona idea impiegare meglio il vostro tempo.