Sylvester Stallone si racconta in Sly, il film-documentario di Netflix in cui racconta cos’ha capito della vita
Una vita raccontata in un’ora e mezza: la storia di Sylvester Stallone, i suoi timori e la sua forza, l’infanzia senza amore e i drammi della vita adulta nel film-documentario di Netflix, Sly.
Ho capito che i nostri eroi non muoiono mai davanti ai nostri occhi.
L’ultima volta che abbiamo visto Rambo, lui era morto. Ma Sylverster Stallone ha voluto ritoccare la scena, facendo sì che la sedia a dondolo sul portico su cui era andato a morire si muovesse ancora.
Perché i nostri eroi non muoiono mai davanti ai nostri occhi, anzi: alcuni vivono in eterno.
Io c’ero quando la ormai mitica rivalità fra Sylverster Stallone - la cui carriera cinematografica era iniziata prima, e con risultati più importanti - e Arnold Schwarzenegger era viva e vegeta.
E ho visto entrambi i documentari di Netflix sulle loro vite. Solo che per Schwarzy c’è voluta una miniserie in 3 episodi, Arnold, mentre a Sly è bastato un film di un’ora e mezza. Sly, appunto.
Credo che questo sia sufficiente a riassumere quella rivalità, fatta anche di punti in comune (il fascino per i muscoli, la perseveranza, il farcela da soli, il terrore di invecchiare) che Stallone aveva sempre vinto al botteghino. E nei premi.
Perché Arnold Schwarzenegger (presente in Sly insieme a Frank Stallone, Talia Shire, Quentin Tarantino e altri) era un culturista, è diventato un attore e poi un politico. E poi di nuovo un attore.
Ma Sylvester Stallone è sempre stato un artista. Quando i suoi genitori si separarono, lui dovette andare a vivere col padre in mezzo al nulla, mentre suo fratello Frank andò a Philadelphia con la madre.
Sly, un'infanzia difficile, senza amore
Il padre di Sly era un uomo duro, uno che alzava le mani, che non dava mai amore né incoraggiamento. Così, suo figlio decise che avrebbe potuto costruirsi i propri eroi. Quelli che non aveva mai visto nel padre, né in nessun altro, ma che trovava al cinema.
Passava il tempo divorando qualsiasi film gli capitasse a tiro e restando per gli spettacoli successivi. Rivedendo la stessa pellicola in sala ancora, e ancora. Anche quattro o cinque volte di fila.
Lavorava per sbarcare il lunario, fra le altre cose faceva l’usciere in una sala cinematografica. Ma a un certo punto della sua vita decise che sarebbe diventato un attore. Ma non aveva l’aspetto adatto. Lo assumevano solo per fare il delinquente, particine insignificanti. Molto lontane dagli eroi a cui voleva dare vita.
Uno dei primi veri ruoli arrivò nel 1974 con il film Happy Days - La banda dei fiori di pesco accanto a Henry Winkler, che di lì a poco sarebbe diventato una star televisiva con Happy Days. La serie TV, questa volta, in cui interpretava Fonzie.
Così, quando decise di andare a vivere a Los Angeles, Sly conosceva una sola persona: Henry Winkler. Lo chiamò quando la sua auto lo lasciò a piedi, ma con Sly in auto oltre a tutto ciò che possedeva c’era anche il suo cane, un enorme bullmastiff, e Winkler non poteva ospitarlo.
Così iniziò la lotta di Sly per ottenere un ruolo importante. E visto che nessuno gliene offriva uno, iniziò a scriverseli da solo, i ruoli. Aveva sempre scritto tantissimo. Prima di scrivere Rocky aveva già pronte quasi 20 sceneggiature, ma la storia del pugile che cambia il proprio destino era diversa. Era oro, e i produttori l’avevano capito.
Gli offrirono una montagna di soldi - a lui, che non aveva quasi niente - per comprare il copione. Ma lui non voleva venderlo: voleva interpretarlo. Nessuno credeva che sarebbe stato un Rocky Balboa credibile, ma il suo tener duro alla fine lo ripagò. Sapeva che se avesse venduto il copione, anche per mezzo milione di dollari, una cifra da capogiro a metà degli anni ’70, dopo aver finito i soldi si sarebbe pentito di aver perso l’occasione.
Chi la dura, la vince. E fu così che Sylvester Stallone convinse i produttori a fargli interpretare Rocky, pur di girare il film.
Un film che avrebbe cambiato la vita di Stallone per sempre, ma anche la storia del cinema.
3 oscar, incassi fenomenali - meno di un milione di dollari per realizzarlo, quasi 120 incassati ai botteghini - e una popolarità senza precedenti. Sylvester Stallone era sempre in TV, ospite dei programmi più seguiti, e tutti sapevano chi fosse.
In cerca di riscatto
In questo film che racconta la sua storia, Sly racconta di successi e flop, di scelte giuste e meno felici, di arte e di passione, di amore e di famiglia.
C’è una sequenza che mi ha colpita particolarmente: quella in cui, alla partita di polo organizzata per giocare contro suo padre, finisce disarcionato, nonché vivo per miracolo, dopo un colpo scorretto ricevuto proprio dal padre, alle spalle.
Quando lo racconta alla conferenza stampa successiva alla partita, i giornalisti presenti ridono. Ma la sua non era una battuta, era un’amara considerazione:
L’unico colpo basso l’ha fatto mio padre, e ha colpito suo figlio.
In quelle risate stupide e superficiali c’è tutto il senso di questo film, della continua lotta in cerca del riscatto, la battaglia per affermarsi personalmente in un mondo che vede solo l’esteriorità. I muscoli e la violenza. Erano gli anni ’80, certo. Ma erano anche anni in cui gli attori non fingevano, si picchiavano davvero sul ring.
Operazioni, infortuni, dolore. Tutto questo arrivava dal cinema, il modo in cui Sylvester Stallone cercava di esorcizzare i suoi demoni. Non a caso, parlando di Rambo parla spesso del padre del personaggio.
Sly ha avuto una vita incredibile, ma anche tanto dolore. Il figlio Sage, che aveva recitato accanto a lui in Rocky V, venne trovato morto nella sua casa a 36 anni. L’autopsia rivelò che era morto di infarto causato da aterosclerosi.
Sly e il vero senso della vita
Spesso le coppie che perdono un figlio si separano. Ma lui e sua moglie Jennifer sono rimasti insieme, sempre, da quando si sono innamorati e poi sposati, nel 1997. Hanno avuto altre tre figlie, protagoniste insieme a Stallone del docu-reality La famiglia Stallone (disponibile su Paramount+).
Ed è a loro che, dopo averci raccontato la sua incredibile avventura, che l’ha reso una delle superstar più celebri di tutti i tempi, Sylvester Stallone dedica ciò che ha capito della vita. Avrebbe voluto passare meno tempo a fare “uno stupido film” e trascorrerne di più accanto alla sua famiglia.
Rifiuta l’idea di invecchiare e racconta di aver vissuto il tempo di un soffio, ma al tempo stesso esibisce - forse involontariamente - una maturità e una saggezza che l’hanno reso una star. Un uomo attento alle persone che dipendono da lui. Un uomo che si avvicina molto a quell’ideale di eroe che aveva sempre inseguito, fin da ragazzino.
E anche se è vicino agli 80 anni, per noi resterà sempre l’uomo che ha incontrato i veterani per capire cos'avevano vissuto e improvvisato il monologo più celebre di Rambo per dar voce a chi non aveva speranza. Tanto che, mentre il copione prevedeva la sua morte alla fine del primo film, Stallone rischiò severe sanzioni rifiutandosi di girare quel finale e bloccando di fatto la produzione del film. Sapeva che tutti i veterani con cui aveva parlato erano stati abbandonati, rimasti senza speranza. Tanti si toglievano la vita. Lui voleva che almeno al cinema, almeno lì, potessero ritrovare una speranza.
Perché i nostri eroi non muoiono mai davanti ai nostri occhi.