The Bikeriders, recensione: Jeff Nichols il rombo del “vecchio” cinema a stelle e strisce, tutto cilindrate, sex symbol e malinconia

Jeff Nichols ci regala un momento di cinema d'altri tempi, che sostituisce una certa ingenuità a una grande consapevolezza senza giudizio: The Bikeriders è ottimo, ma non è un gran film.

di Elisa Giudici

All’inizio di The Bikeriders, per citare un motivetto sanremese, un ragazzo incontra una ragazza. Siamo un un bar dove si ritrova un club di motociclistici. La ragazza in questione si chiama Kathy (Jodie Comer) ed è molto scocciata perché uno dei presenti con una mano sporca di grasso di motore le ha impiastricciato il retro dei suoi jeans Levi’s. In quel postaccio si è infilata solo per portare dei soldi a un’amica. Sta per andarsene quando scorge un ragazzo, appunto: Benny (Austin Butler), che sta giocando a biliardo, indossando il giubbotto dei Vandals. La giacca non è un chiodo, non è nemmeno in pelle nera. Benny gira per le strade e i bar indossando una giacca di jeans ricoperta delle toppe e dei simboli del gruppo.

Benny la vede, Kathy non se ne va. Si avvicina al suo tavolo, scambiano qualche parola. Benny gira la sedia, si appoggia con le braccia muscolose allo schienale. La voce fuori campo della Kathy di oggi, fortissimo accento dei Midwest e sicumera della donna che conosce davvero la vita, commenta: “Non può essere amore…dev’essere stupidità”, spiegando che a quell’incontro sono seguiti innumerevoli tour in ospedali, prigioni, tribunali. Eppure nulla scalfisce la magia dei loro sguardi, di chi si è appena visto e già si desidera. Un incontro “classico”, un colpo di fulmine da cinema d’altri tempi.


The Bikeriders è nostalgico, ma con grande onestà

The Bikeriders è proprio questo: il racconto di un’America di altri tempi, che guarda al cinema che fu, ma che al contempo riesce a essere obiettivo, realistico, rimanendo non giudicante. La nuova pellicola di Jeff Nichols (Mud, Midnight Special), tra l’altro girata in gran parte su pellicola, è ispirata a un celebre reportage fotografico firmato da Danny Lyon, qui interpretato da Mike Faist. Il libro forniva uno sguardo intimo su uno quei quattro club più importanti nell’America degli anni ‘60, gli Outlaws MC. Nichols crea la sua leggenda, quella dei Vandals, scrive la sua storia: quella di un triangolo amoroso e motociclistico.

I film più citati per raccontare The Bikeriders e la sua atmosfera sono due: Quei bravi ragazzi e Easy Rider, eppure entrambi, in qualche modo, mancano il bersaglio, non colgono la vera essenza di un film che riesce a essere nostalgico ma anche molto obiettivo. Vedendo il trailer del film viene da pensare: “ecco, un altro film che vuole fare il verso al Marlon Brando ribelle degli anni ‘50”, solo che poi al cinema il riferimento viene esplicitato, in una scena che cattura appieno tutta la contraddizione raccontata in The Bikeriders.

Il club infatti è stato fondato da un camionista di Chicago di nome Johnny (Tom Hardy), uno tutt'altro che giovane e ribelle. Viene ispirato dall’aver visto Brando ne Il selvaggio (1953) in TV, seduto divano di casa, moglie e figlie al proprio fianco. Quella ideata da Nichols è la genesi di una leggenda motociclistica molto ironica, quasi beffarda. Il club che ambisce a far sentire uniti e a casa i disadattati e i reietti è fondato da uno che ha quell’anelito radicale alla libertà, ma può lavorare alla fondazione del gruppo proprio per come è inserito nel tessuto sociale.

Quello di Johnny non è un capriccio né un’ipocrisia. I suoi Vandals sono la contraddizione vivente di chi vuole sfuggire alle regole e per farlo idoltra un sistema di regole altrettanto stringente che il gruppo costruisce insieme alla sua mitologia. D’altronde i Vandals vengono raccontati con arguzia e schiettezza proprio da Kathy, che ne vede i limiti e le assurdità, ma al contempo non li giudica con asprezza e ammette di aver assimilato la loro forma mentis. Il film fa lo stesso: mostra i limiti e le contraddizioni di questa sottocultura degli anni ‘60, ma al contempo ne capisce e ne racconta con poesia la voglia di libertà, i legami umani, lo spirito di gruppo.

Austin Butler è il mistero attorno a cui ruota The Bikeriders

Un altro esempio perfetto in questo senso è il personaggio di Benny, un’altra contraddizione che cavalca una moto rombante. Benny, di fatto, è un magnete in forma di mistero: non si sa da dove venga, a un certo punto non si sa dove vada, è allergico ai bisogni delle persone e alle regole della società normale. Lui è un Vandal puro, uno che davvero vive la vita in forma radicale, un matrimonio lampo dopo 5 settimane con Kathy che abita da ospite, un rapporto simbiotico con Johnny in cui ognuno è ciò che l’altro desidera essere ma non può.

Se Jodie Comer è il cuore pulsante del film con la sua splendida performance, se Tom Hardy incarna alla perfezione la rassegnata malinconia di chi “può aver dato tutto per un progetto e quello sarà cosa deve essere”, Butler è una star vecchia Hollywood, un mistero tenuto insieme dal suo magnetismo quasi disumano, dalla sua bellezza innegabile, dal desiderio che gli altri personaggi riflettono su di lui. Nichols lo inquadra e lo descrive come un James Dean, un Marlon Brando, ma al contempo lo racconta come uno che incapace di non far succedere cose brutte a sé e alla sua moto (grande disonore per un motociclista), persino uno sprovveduto che ha la polizia alle calcagna e, dopo averla seminata, rimane a secco di benzina.

Il film vive del contrasto tra Kathy e Johnny, che vogliono entrambi per sé Benny, simbolo di quell’inafferrabile libertà a cui anela la sottocultura dei motociclisti. The Bikeriders però racconta l’impossibilità di un movimento anarchico e underground di sopravvivere alla sua stessa popolarità e al proprio successo, andando a parare esattamente dove ci aspetteremmo. Le premesse - questa mescolanza di impaccio e leggenda - sono ottime, ma nella seconda parte, al tramonto della forma “pura” dei Vandals, il film sembra incapace di trovare altro da dire.

Ci sono due o tre punti della pellicola in cui ci sono delle scelte cardinali da fare, che avrebbero potuto rendere The Bikeriders un grande film. Per esempio, sul finale, c’è una chiusa perfetta per Benny, che ne mantiene l’aura leggendaria, quasi al di fuori della sfera dell’umano. Per regalarci una scena molto umana, al contrario, Nichols decide di non chiudere lì, ma di darci altri 10 minuti, di spiegazioni forse dovute, ma che smorzano la potenza della sua storia on the road.

The Bikeriders dunque, con il suo triangolo di desideri impossibili mai sublimati e di ingenuo anelito verso la libertà che diventa un organizzato e sistematico uso della violenza, sceglie di essere “solo” un gran bel film, onesto nella sua nostalgia.