The Brutalist è già un quasi capolavoro: il Leone d’Oro è blindato? La recensione

Un film monumentale, che si avvicina davvero tanto ad essere un capolavoro: The Brutalist sembra destinato a segnare un prima e un dopo il suo arrivo in Mostra. La recensione del film.

di Elisa Giudici

Non è facile descrivere l’esperienza di visione di The Brutalist e non perché manchino i superlativi in grado di restituire la grandezza di questa monumentale pellicola. Che sia un grande film lo si dà per assodato: una pellicola che giustifica quando non esalta la sua intera durata di 215 minuti non può essere fraintesa per un errore o un abbaglio. Film di questa dimensione e portata però sarebbe bene giudicarli cautamente, specie nel riflesso distorto che l’esperienza festivaliera dà. Ogni giorno si vedono in media dai 3 ai 5 film, con un’esperienza di visione così compressa nel tempo e lontana dall’ordinario che spesso capita di ritornarci successivamente, quando hanno maggiore respiro, e scoprire un film molto, molto diverso.

D’altronde la storia prima o poi consegna un film che la cambia per sempre. Il passaggio difficile è prendersi il rischio di dire, subito: sì, questo è il film di questo decennio, di questa generazione, un film così rilevante che è destinato a rimanere. Un Apocalypse Now, un Quarto Potere, un La Dolce Vita sono rimasti tali anche perché (spesso per cause e concomitanze che hanno a che fare fino a un certo punto con la loro intrinseca qualità), chi fa questa professione o quella del critico cinematografico si è sbilanciato subito, a caldo. È una mossa vertiginosa, in cui ci si gioca la fiducia dei lettori, la propria reputazione. Se però a due ore dall’inizio della proiezione t’interroghi su come sia stato per i colleghi delle generazioni precedenti imbattersi in un film epocale, forse è il caso di rischiare l’azzardo.

The Brutalist è un quasi capolavoro

Quindi sì, The Brutalist è un film che fa davvero venire voglia di rischiare la parola che inizia con la c: capolavoro.Non lo è completamente, senza se e senza ma, ma ci va così vicino che già nella sua prima visione non è così azzardato parlare di un film enorme, gigantesco, completamente differente da quanto finora visto in quest’annata cinematografica. A presentarlo tra l’altro è un 36enne con all’attivo una serie di film ambiziosissimi ma mai pienamente riusciti. Brady Corbet è la personificazione di quella frase che la critica ama spesso spendere, abbinata all’etichetta di sorvegliato speciale: “è un grande talento che quando indovinerà il film giusto farà qualcosa di epocale”.

Ci sono tanti ottimi registi a cui non riesce mai d’indovinare davvero un film. Corbert The Brutalist invece l’ha indovinato eccome. L’ha scritto insieme alla sua abituale collaboratrice Mona Fastvold e la diretto con il piglio dell’autore. Nel pieno della pandemia, colpito da una serie infinita di recasting e problematiche, ha rifiutato ogni compromesso: il film viene presentato in pellicola da 70 millimetri, con la durata di 215 minuti (con tanto di intermission perfettamente integrata alla storia di un quarto d’ora, che a sua volta regala un’esperienza particolare in sala). Il regista ha lasciato intendere che anche nel mondo iper-cinefilo dei festival nessuno voleva scommettere su un film così impegnativo, almeno fino a quando il direttore della mostra Alberto Barbera l’ha opzionato e ha messo The Brutalist in concorso. Certo manca un’intera settimana di programmazione, ma statisticamente parlando film così non se ne vedono ogni anno, per cui è quasi impossibile immaginare che una sola edizione della Mostra ne contenga ben due. In altre parole: The Brutalist il Leone d’Oro lo può solo perdere.


The Brutalist vive fuori dal tempo e sembra già un classico

Cosa rende così straordinario questo film? Innanzitutto il suo vivere fuori dal tempo, il suo ricercare una purezza cinematografica che lo fanno sembrare un classico di altri tempi, mai toccato da influenze seriali, dai gusti e dalle derive del cinema contemporaneo. Non è facile, non è seducente, non rassicura lo spettatore, non si mostra familiare e approciabile. Scomoda grandi paragoni con titoli storici del passato perché fa qualcosa che quel tipo di classici osa(va) fare: tenta di tenere insieme tutta l’esperienza umana, ciò che è esistenziale.

Dentro The Brutalist c’è tutto ciò che caratterizza la vita umana: l’essere vivi (anche se si è dei sopravvissuti), affrontare la morte, il dolore fisico, il malessere mentale, l’amore purissimo e il desiderio più carnale, fino alle sue aberrazioni violente. La violenza primordiale dei legami familiari propria della tragedia greca (padri padroni, figli affascinati e orrificati dai genitori), quella insita in una società basata sulle classi. Il piacere, l’orrore, la guerra, la resistenza: c’è un partigiano anarchico e scultore che lascia la sua valle solo una volta nella vita, per andare con le sue mani a percuotere il cadavere del duce appeso a testa in giù.

Non può mancare la dimensione spirituale: Dio in più accezioni monoteistiche del termine, la sua assenza, la sua trasformazione in uno strumento per disprezzare. C’è tutto quello che gli esseri umani usano come arma contundente per dividersi in tribù: la razza, la religione, l’orientamento sessuale, l’aspetto, la nazionalità.

The Brutalist racconta l’umanità attraverso tre chiavi di lettura

Per sintetizzare temi così alti e così profondi è spesso necessario un filtro, una lente. The Brutalist è il risultato della combinazione di tre lenti differenti attraverso cui scruta l’umanità. La prima è quella dell’Olocausto. La coppia protagonista infatti è sopravvissuta all’esperienza dei campi di concentramento. Come in La zona d’interesse non vediamo nulla di quanto avvenuto nei campi, non ci viene detto nulla di ciò che i due hanno patito, eppure The Brutalist è il racconto di come due sopravvissuti spendano il resto della loro vita a scendere a patti con quanto è successo loro, a rinegoziare la loro storia d’amore alla luce di un’esperienza traumatica che hanno vissuto entrambi ma separatamente. Lei consola il marito dicendo “ci hanno fatto male solo nel nostro corpo fisico”, eppure il film è un continuo esplorare le ferite delle loro anime.

La seconda lente è quella dell’architettura, evocata già dal titolo. In questo senso The Brutalist è tutto ciò che Megalopolis di Francis Ford Coppola voleva e sperava di essere. Il protagonista della pellicola è un geniale architetto brutalista ungherese cresciuto alla scuola del Bauhaus, sopravvissuto al Terzo Reich e alle prese con una grandiosa committenza su suolo statunitense. Per László Tóth (Adrien Brody) “non c’è miglior metafora della vita della sua costruzione”. I suoi edifici sono immaginati per “rimanere incorrotti” di fronte allo spirito del tempo, solo temporaneamente squalificati e condannati da un Reich che li giudica “non abbastanza di carattere germanico”.

La terza lente attraverso cui il film legge l’umanità è quella degli Stati Uniti che, con un ribaltamento vertiginoso, diventano la vera fonte di ogni male in un film la cui premessa è l’Olocausto. László trova rifugio negli Stati Uniti nel dopo guerra: la prima parte del film si svolge tra il 1947 e il 1952 in Pennsylvania, lo stato “cruciale” degli States per la produzione industriale, per l’acciaio, per la manifattura. Il film si pare con una prospettiva rovesciata sulla Statua della libertà: sembra l’euforia di chi è appena stato salvato e accolto, ma tre ore dopo, quando a essere rovesciata a ribaltata sarà una croce di luce, capiremo cosa voleva dire Corbet.

C’è del marcio negli Stati Uniti

The Brutalist è uno dei più efficaci racconti mai scritti sull’esperienza della migrazione e sul paese che - in teoria - fa dell’accoglienza e del melting pot culturale parte della sua identità. László scopre ben presto che gli Stati Uniti accolgono davvero solo chi è disposto ad annacquare ed occultare la propria diversità, cambiando cognome, religione, identità. Grazie al suo genio, si conquista il massimo grado di accoglienza: un personaggio americano gli dirà, con livore, che lui “viene tollerato”.

La prima parte del film è percorsa dall’epilostolario con la moglie Erzsébet Tóth (Felicity Jones), a cui è disperatamente legato, ma a cui non riesce a riunirsi. Nella seconda parte il loro amore d’altri tempi - profondissimo, totalizzante, innervato dal dolore e fatto di una comprensione e di una schietezza brutali - mette ancora più a fuoco il marcio che c’è nel regno d’America. Una terra di sogni e possibilità sotto cui palpita un fortissimo classismo, in cui i coniugi Tóth sono al contempo più umili e costretti a mendicare, ma disprezzati per la superiorità della loro bellezza, per la loro cultura, per le loro radici del vecchio Continente. La ferita peggiore - fisica e spirituale - la infliggono gli Stati Uniti, che Erzsébeth e il film condanneranno come marci, corrotti, irredimibili.

Il magnate e il mendicante di The Brutalist

I personaggi di The Brutalist sono tutti, in qualche modo, archetipi e complessi. Su tutti però il più luciferino, contraddittorio ed epocale è il magnate Harrison Lee Van Buren di Guy Pearce, l’incarnazione stessa delle contraddizioni e delle meschinità alla base dell’anima statunitense. Padre terribile, affarista volgare, milionario mecenate magnanimo ma privo del genio per capire e apprezzare istintivamente l’arte, costruisce una codipendenza di rara tossicità con entrambi i coniugi Tóth, che vorrebbe manipolare fino a essere a loro ammirato ma finisce per ridurre in pezzi. È il cittadino Kaine del film.

László è il suo contraltare, l’incarnazione dello spirito del vecchio continente: sopravvive al suo passato cedendo ai vizi, ma su ciò che è importante si dimostra integerrimo, spirituale rispetto alla volgarità del materiale e del capitale, capace di un’umanità solidale che il denaro, il capitalismo, il modello statunitense riducono a mero galateo. Non si possono non intessere le lodi di Adrien Brody, uno che il ruolo della vita l’aveva già azzeccato con Il pianista di Polanski. Qui riesce a superarsi, incarnando con una potenza, una violenza inaudite l’animo tormentato di László che smette di recitare ed è tutto un fascio di nervi, afflato artistico, corpo e anima sofferente. Adrien è. Sembra di vederlo già con in mano un Oscar. Pearce non è da meno.

The Brutalist è un fantastico candidato come miglior film d’anno perché si esprime a livello straordinario in ogni comparto tecnico. La musica e il missaggio sonoro immergono in un’atmosfera palpabile, la fotografia di Lol Crawleyutilizza una scala di verdi magnifica e talvolta sinistra, il montaggio di Dávid Jancsó fa il paio con la splendida, meravigliosa regia di Corbet.

The Brutalist non è esente da difetti, ma rimane un grande film

In un film talmente enorme, monumentale, anche la più piccola sbavatura salta all’occhio. È vero per esempio che la seconda parte del film non ha la verve della prima. Tuttavia l’avvio del film è così fuori scala per magnitudo che questo non significa che la seconda parte non sia più che ottima. O forse è solo che è più intimista, più raccolta, ancora più brutale della prima, coronando in una scena di pura violenza che manda in pezzi anche il cuore dello spettatore.

C’è inoltre da rilevare che il film sa essere così carico di energia sotterranea, tesa, inespressa pur saltando a piè pari la parte facile e stuzzicante con cui questo genere di storie prendono il via. In The Brutalist ****mancano completamente la giovinezza, la spensieratezza, il coming of age, le prime volte. Incontriamo i nostri personaggi che sono già piegati dalle asperità, adulti, quasi vecchi: eppure la loro storia inizia da lì.

Se l’avvio è strepitoso, la chiusa è il vero tallone d’Achille. Il film è diviso in tre parti: l’ultima dura una manciata di minuti ed è così radicalmente diversa per toni ed estetica da quanto venuto prima da lasciare costernati. La sua funzione è quella di fornirci la chiave di lettura dell’edificio la cui costruzione è alla base del film, la grande opera impossibile che consuma le vite dei protagonisti. La risoluzione in sé è toccante e all’altezza di tutto il resto, ma così sgraziatamente servita allo spettatore, così didascalica nella sua natura, che sembra stonare in un film che fa un lavoro eccelso e certosino persino nelle grafiche dei titoli di testa e coda.