The Crow - Il corvo è tutto l’opposto del film originale, ma ne abbraccia la stranezza: la recensione

The Crow non tenta di replicare i fasti del film con Brandon Lee, ma cerca una sua strada. Il risultato è stranissimo, pieno di bizzarrie: un fallimento che, a tratti, affascina.

di Elisa Giudici

The Crow - Il Corvo non è all’altezza del film a cui s’ispira ma, con un po’ di generosità, si può concedergli di aver seguito le sue orme, pur essendo un film profondamente diverso.

Torniamo ad esattamente 30 anni fa, quando il film di Alex Proyas uscì nelle sale, già ammantato della sua aura maledetta, forse già destinato a essere un cult. Come poteva essere altrimenti? Un film che ti siedi in sala e da qualche parte nel cervello sai che quando vedrai i cattivi di turno sparare al protagonista, quella scena finita nel montaggio è esattamente quella in cui, per davvero, il protagonista della pellicola perse la vita.

Si è parlato per anni dell’amara ironia malcelata dietro la tragedia: una giovane promessa del cinema, un figlio d’arte che muore sul set di un film in cui interpreta con grande carisma un uomo che torna dal suo omicidio efferato per compiere la sua vendetta contro chi ha privato lui e la sua amata della vita. Questo è ciò che ha lasciato dietro di sé Il corvo: una storia tragica che s’innesta alla perfezione nella tragedia raccontata da un film di cui ricordiamo i look, le atmosfere, le tonalità gotiche. D’altronde quella era l’epoca d’oro di Tim Burton, del malessere giovanile che filtrava dal grunge ma anche dal pop, dalle culture e controculture giovanili.

Rivedendolo oggi The Crow stupisce per come sia un film con una storia appena abbozzata, con una trama che non funziona mai veramente. Succede pochissimo, spesso in modo così mal diretto e montato che non è chiaro cosa succeda, chi spari a chi. Il film in quanto narrazione è quasi inesistente. The Crow esiste, sopravvive e prolifera come atmosfera. Non c’è tutto il sangue che forse ricorderete: la memoria di quel rosso vivo è quella di una fotografia che insiste su sfondi rossi, neon rossastri, luci rubino. L’unico punto di colore in un mondo in bianco e nero, perennemente lavato da una pioggia evidentemente scenica e creata sul set, infinita. Non è un fenomeno meteorologico, è l’espressione del sentimento di tristezza e struggimento che muove i protagonisti. The Crow è un cult che vive d’atmosfera, della capacità d’intercettare le prime derive videoclippare della MTV generation al cinema: le sequenze migliori sembrano rubate a video musicali di band rock. The Crow incarnò come poi altri un immaginario, una suggestione, un mood, senza mai essere un film compiuto come i lavori gotici di Burton, come qualche anno più tardi Donnie Darko.

The Crow è un film fuori dal tempo, che non dialoga con il presente

Nel 2024, The Crow - Il corvo è l’esatto opposto. È un film stranissimo, qualcosa di davvero unico che non si vedeva nelle sale da tantissimo. Non sembra di stare al cinema, sembra di incappare su un’emittente privata in un vecchio film - forse degli anni ‘90 - che non si era mai visto prima, rimanendo al contempo affascinanti e scettici. The Crow è completamente slegato al mood del cinema contemporaneo.

Certo è girato in digitale, certo ha quella triste palette di colori metallici, smorti e un po’ slavati che fanno tanto rimpiangere quel rosso quasi fumettistico e molto noir dell’originale. Certo i volti sono quelli di oggi: quello un po’ alieno e bellissimo di FKA Twigs (che buca lo schermo con lo sguardo, ma come attrice deve ancora molto lavorare) e quello di Bill Skarsgård. Un interprete a cui non è stato ancora dato un progetto all’altezza del suo evidente, enorme talento e carisma. Un po’ come Brandon Lee, anche lui figlio d’arte, si mette il film sulle spalle e ci mette una pezza, portandosi in giro anche lo scomodissimo paragone col compianto predecessore.

Il nuovo Corvo ha una genesi simile all’originale, ma dall’avvio più fiacco. L’idea del film degli anni ‘90 era ben più forte, sia per svolgimento sia per cronistoria: si partiva dalla mattanza e via via si spiegava quanto successo, perché e come sarebbe stato vendicato. Qui invece si parte dall’innamoramento di due reietti rinchiusi in una clinica psichiatrica, si coltiva il loro amore purissimo e profondo, rimandando per un po’ l’immane tragedia inevitabile. Stavolta la storia è più curata, più articolata, con una vaga critica sociale ancor prima che spunti la componente sovrannaturale. Si vede un po’ di droga (da quanto non la si vedeva in in film commerciale?), c’è un sottofondo di ricchi che mandano i loro lacchè a togliere di mezzo testimoni scomodi.

Il nuovo Corvo è un po' Orfeo e un po' John Wick

Questo Corvo ha un suo purgatorio, un mondo tra i mondi dove lo attende una figura ultraterrena che gli spiega le regole del gioco. Pian piano capiamo che il punto è non solo ma vendetta, ma una sorta di contemporaneo Orfeo e Euridice. Se lui condanna sé stesso, forse per lei c’è ancora speranza. La storia è sincopata ma anche anarchica, decide di fare di testa sua, s’infila in svolte imbazzanti ma talvotla inaspettate, ardite.

Proprio come nell’originale, c’è la ricerca di un’atmosfera, una che non si vedeva da tantissimo al cinema. Non quella gotica, no. Piuttosto una sorta di decadenza diffusa, mescolata alla malinconia di un’amore così totalizzante che non può finire che in tragedia. L’amore puro, l’amore folle, l’amore troppo: qualcosa che sembra distante anni luce dal presente in cui in film come Twisters, persino un bacio sembra essere troppo ardito, una concessione. The Crow si tuffa in un romanticismo dalla consistenza di melassa, quasi vischioso, soffocante e ci si rotola dentro, mentre il resto del cinema si guarda bene da anche solo sfiorare la dimensione sentimentale, romantica, fisica.

The Crow invece si abbandona a un romanticismo totalizzante e quasi adolescenziale. È ciò che lo rende rende strano, diverso, alieno, alternativo. Purtroppo però a un certo punto qualcuno gli ricorda che deve riconnettersi al presente ed ecco che nella parte finale diventa una brutta fotocopia di John Wick.

Talvolta però inciampa in momenti di bellezza quasi struggente: la stupenda coreografia all’opera, per esempio, che diventa il culmine di una colonna sonora intrigante. I costumi sembrano più pezzi d’avanguardia fashion che qualcosa di realizzato per un film. È l’ennesimo lavoro di pregio del duo Kurt e Bart, che si era già fatto notare per il lavoro svolto con The Hunger Games: Mockingjay e la serie Apple Fondazione.