The Last Showgirl, recensione: Las Vegas muore, Pamela Anderson rinasce

The Last Showgirl racconta la morte di un certo immaginario legato a Las Vegas e a un certo tipo di America, ormai agonizzante. A uscirne ritrovata e splendida è la sua protagonista Pamela Anderson.

di Elisa Giudici

Sono passati esattamente 20 anni dall’arrivo in sala di Showgirls, il film più famigerato del 1995, stroncato dalla critica, distrutto al botteghino, divenuto anno dopo anno sempre più un cult. In quella pellicola la premiata coppia Verhoeven - Eszterhas (la stessa dietro Basic Instinct) raccontava una Las Vegas capitale dell’eccesso e della performance artistica allusiva ed esplicita, attraverso l’enigmatico personaggio di Nomi, ballerina decisa a farsi strada nel mondo degli show tutti paillettes, piume e strass che non coprono seni e gambe sodi di performer mozzafiato.

La lenta agonia dello showgirl di Las Vegas

Vent’anni dopo è Gia Coppola, ultima erede della grande dinastia cinematografica italoamericana al terzo film da regista a raccontare di nuovo quel mondo. La prospettiva diventa dunque femminile, ma, con uno sguardo un po’ acuto, il punto d’arrivo rimane quello: il difficile equilibrio personale di chi vende la propria nudità ma anche una performance artistica in uno spettacolo che oscilla tra esibizione ed esibizionismo, che richiede una serie di qualità professionali ma al contempo non è inserito nel novero delle arti come le forme più tradizionali di danza. È prostituzione, è arte, cos’è uno show come quello delle Razzle Dazzle?

Uno show che vediamo pochissimo, prettamente dal suo dietro le quinte, perché il punto di The Last Showgirl è che lo spettacolo sta per chiudere, lasciando senza lavoro Shelley Gardner (Pamela Anderson) e le sue colleghe. I tempo dorati di una Las Vegas fatta di opulenza e corteggiata anche da Hollywood sono finiti. A pagarne il prezzo sono ovviamente i lavoratori sul gradino più basso della scala sociale. La fine dello show diventa un brusco risveglio per Shelley, che dello spettacolo è l’ultima icona imperitura e sbiadita, la sua foto del ventennio precedente ancora a fare da scatto promozionale sulle locandine.

Quello di The Last Showgirl è il ritratto di un’improvvisa presa di consapevolezza: quella di una donna che in nome del mestiere che vuole fare ha sacrificato tanto, tantissimo, forse anche con un po’ d’ingenuità. Shelley non ha mai guardato al futuro, nonostante per età i suoi anni sul palco non siano destinati a essere ancora tanti, anche non considerando la fine improvvisa dello spettacolo. Dal suo vestiario ai film che guarda al modo in cui si muove, è una ballerina che vive per la sua arte, di cui al contempo ha una profonda conoscenza storica, una discreta padronanza tecnica ma anche una percezione molto ottimista e un po’ superficiale. Sicuramente è rimasta impermeabile al cambiamento dei gusti al di fuori del perimetro delle Razzle Dazzle, per cui ritrovarsi a fare audizioni e scoprire le nuove direzione verso cui si è mossa Las Vegas è uno shock assoluto.

Scossa che arriva mentre un capitolo passato della sua vita torna a chiedere il conto. Proprio mentre scopre di stare per rimanere senza lavoro si fa viva la figlia ormai adulta, che la madre ha affidato a una coppia di conoscenti che l’hanno cresciuta in sua vece. La figlia, studentessa universitaria, è alla ricerca di comprensione: da parte della madre per le sue aspirazioni artistiche, ma anche dell’arte della madre, che lei percepisce come ciò a cui la sua infanzia è stata sacrificata.Ciò che rende potente The Last Showgirl è che hanno entrambe ragione: la figlia nell’evidenziare come le Razzle Dazzle non siano il pinnacolo tecnico della danza percependo uno stacco netto tra le lodi che ne tesse la madre e la realtà attuale della performance, Shelley nel dire che ha fatto una scelta a cui aveva diritto, a patto di affrontarne le conseguenze.

The Last Showgirl è abbastanza onesto da rifiutare la scorciatoia dell'eccezionalità

Sarebbe facile evidenziare come le rimostranze ai danni di Shelley arrivino perché é donna e madre, ovvero come la società digerisca assai più facilmente il sacrificio familiare se è a favore di un talento maschile. Dove Coppola fa fare al film il vero salto di qualità è nel rifiutare la scorciatoia dell’eccezionalità. Shelley non è un’incredibile artista, non è talmente strepitosa da rendere più accettabile la sua scelta. Anzi, come le viene brutalmente fatto notare, la sua avvenenza è stata la chiave di volta per ottenere il ruolo nello show al picco della sua popolarità. 

Avvenenza che ora non può più procurarle uno lavoro, a fronte di un livello tecnico alzatosi negli spettacoli circensi o di un grado di esplicito sessuale che lei non vuole accettare. Attraverso il volto, la voce e il carisma dolce ma determinato di una Pamela Anderson nata per questo ruolo (e supportata da un vissuto molto doloroso che amplifica il dramma di Shelley), il film c’interroga, incalzante: perché il talento mediano e l’ambizione professionale di questa donna dovrebbe essere condannata?

Lo fa con un lungometraggio girato in appena 18 giorni, che fa continuamente di necessità virtù e per giunta stile e carattere. Come la scelta di girare con una pellicola 16 millimetri la cui grana è ben visibile, dando a Las Vegas (di notte ma anche di giorno) e al dietro le quinte dello show la grana e l’aspetto di qualcosa di polveroso e già sorpassato culturalmente. Tutto camera a spalla e volti che sono sempre protagonisti (ancor più dei corpi) dato il formato scelto, il film di Coppola dimostra un’onestà brutale che spesso manca a pellicole che affrontano i medesimi temi, convinte che una protagonista non debba avere difetti o contraddizioni per essere raccontata o peggio difesa. Onestà che non risulta cinica e fine a sé stessa, perché accompagnata in maniera complementare da una grande capacità di comprensione e una profonda umanità del raccontare le sue protagoniste.